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Channel: La Piccola BlogTeca degli Orrori di MisterZoro
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INFERNO - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Alla fine, come preannunciato la volta scorsa, svicolando tra un impegno e l’altro me lo sono finalmente visto questo INFERNO di Dan Brown Ron Howard, e…com’era la storia delle aspettative?
Già, che non bisognerebbe mai averne troppe. Quindi ci troviamo davanti a una merda? No.
Ah, ma allora è un capolavoro! No, manco per la cippa.
Ma cerchiamo di andare con ordine.

Premetto innanzitutto che l’omonimo e ispiratore romanzo di Dan Brown (colpevole!) non l’ho mai letto, perciò questa non sarà una recensione incattivita da lettore-classic-incazzato-random che “ommioddio ma cosa avete fatto, Langdon nel libro aveva la barba, Sacrilegio! e Sienna era un travestito! Come avete potuto! E il Rettore in realtà aveva un parco di dinosauri in Costa Rica che gli ha detto malissimo e…” no, niente del genere, la mia opinione su INFERNO si basa solo e unicamente sulla visione del film.
E diciamo che la visione mi ha deluso abbastanza e anzichéno.

Ora, il terzo capitolo della vita avventurosa di quel fenomenale secchione di Robert Langdon, vita cinematografica partita col non riuscitissimo Codice Da Vinci e proseguita con l’ottimo Angeli e Demoni (che sarebbe il prequel ma vabbè) parte già da un incipit abbastanza zoppicante: non sto parlando del megalomane Zobrist e della sua per certi tratti condivisibile volontà di sfoltire il genere umano, a partire tipo dagli anziani perennemente in coda alle poste o da quelli che girano senza mettere la freccia, quanto al solito, vecchio e abusatissimo tema del protagonista che soffre di amnesia, una roba che già vent’anni fa sapeva di vecchio, evvabbè, sbuffiamo e facciamocene una ragione.
Insomma c’è che il megalomane di prima ha creato un terribile virus, Inferno, una nuova peste in grado di decimare la popolazione mondiale per ovviare al problema del sovraffollamento, e come ogni buon cattivo dei cartoni animati si è lasciato dietro intenzionalmente una serie di indizi e riferimenti artistici assurdi perché sennò, giustamente, rischiava di vincere facile, e Langdon (preda di allucinazioni infernali digitali fatte malissimo) ovviamente ci si trova incasinato insieme all’OMS, all’unica dottoressa americana di Firenze e ad altri comprimari e comparsine monodimensionali, che inevitabilmente sapranno condurlo sulla giusta strada. A volte pure a colpi di botte di culo clamorose.



Già la premessa non è delle migliori, e purtroppo non lo è neppure la messa in scena nel suo insieme, che in fondo era quel minimo su cui si poteva almeno contare trattandosi di un film di Ron Howard, regista che personalmente apprezzo molto (Rush, A Beautiful Mind, Angeli e Demoni, Apollo 13 e Cinderella Man, tra i tanti, sono indiscutibilmente un signorcurriculum).
Diversamente dai primi due libri/romanzi, nei quali la “caccia al tesoro” era gestita molto bene e dava perlomeno (sospensione dell’incredulità mode: on) una sensazione di autentico intrico di enigmi da svelare, dove i vari percorsi, manufatti storici e messaggi subliminali all’interno delle opere erano sempre gestiti sul filo del ragionevole dubbio, al netto delle americanate incluse nel prezzo, in INFERNO di tutto questo non vi è traccia.
Tutto il percorso messo in piedi dal Zobrist per trovare il suo virus “dantesco” è fastidiosamente pretestuoso, tanto per usare un eufemismo, le connessioni fra le varie opere sono legate con lo sputo e i ragionamenti attuati per arrivare a una soluzione o a un luogo ben preciso sono talmente scemi e banali che al confronto Il Mistero dei Templari sembra un film per persone intelligenti.

Tom Hanks con quei due chili di panza in meno (e una faccia non sua)
L'unica dieta che fa miracoli è Photoshop


Il cast, nonostante alcuni nomi importanti, non aiuta: i rapporti fra i protagonisti sono gestiti all’insegna dell’ “Ehi, chi si vede!”, Tom Hanks in primis sembra non averne voglia e ai vari cartonati personaggi che gli ruotano attorno puoi appuntare un cartellino mentale nel momento stesso in cuo compaiono sullo schermo: amante perduta! check, l’infame! check, doppiogiochista! check, villain! check, e così via.
Il piattume.
La regia di Howard, per la prima volta da che ne ho memoria, appare piatta e svogliata: certo, alcune vedute di Firenze e Venezia tolgono il fiato, ma sfido chiunque a tirarne fuori qualcosa d’indecente con una ripresa aerea.
Il resto purtroppo risulta fintissimo, trascurato, alcuni set sono fastidiosamente posticci e poco credibili, mentre le scene d’azione, in un film che fondamentalmente è una grande “fuga culturale” dall’inizio alla fine, sono fiacche in modo irritante, tanto che quando un personaggio muore arriva a fregartene poco o niente, tanto la scena risulta fintissima e il morto monodimensionale.



Tutto questo crea ancora più fastidio se si ripensa ad un film di tutt’altra fattura come il precedente Angeli e Demoni, che riusciva a trasmettere la frenesia e la potenza di un’ottima storia d’azione con protagonista un uomo comune travolto dagli eventi che col solo acume riusciva a risolvere la faccenda.
Non parliamo poi della figura da cioccolatai interdetti che facciamo noi, poi, che la scena del furto della maschera nel museo è un monumento all’idiozia italiana come non se n’erano mai visti.
INFERNO di Ron Howard è un po’ la sagra dell’occasione persa e dell’aspettativa sprecata, un risultato mediocre che può andare bene per un film da seconda serata tra i Bellissimi di Retequattro o per i fan di The Librarian (ne esistono?) non certo per quello che dovrebbe essere cinema di alto livello, una produzione internazionale altisonante, ma è risaputo che Sony con le sue galline dalle uova d’oro non trova mai di meglio da farci se non il brodo.
Peccato.
IN BREVE: Film lento e prevedibile pieno di personaggi stereotipati, intrigo fin troppo lineare e percorso ad enigmi pretestuoso, Tom Hanks non ne ha voglia e si vede.
Angeli e Demoni sembra davvero di un altro pianeta. E di un altro regista.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 6 (stiracchiato)

DOCTOR STRANGE - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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I cancelli del piano astrale si sono finalmente aperti, l’embargo è finito, e l’ultimo film Marvel dell’anno si è trasfigurato nei cinema di tutto il mondo: l’arrivo di DOCTOR STRANGE spalanca le porte alla magia
all’interno dell’MCU, e non è qualcosa da sottovalutare.
Com’è andata quindi la prima dello Strano Dottore?

Molto bene, direi.
DOCTOR STRANGE è un classico film di origini, l’introduzione di un personaggio importantissimo del Marvel Universe cartaceo classico nell’ormai ben nutrito pantheon cinematografico, come ci tiene tantissimo a ricordare la nuova sboronissima intro/sigla dei Marvel Studios.
Il dottore cartaceo e quello cinematografico, interpretato da un ottimo Cumberbatch, condividono appieno solo la prima personificazione del Doc: abbiamo infatti a che fare fondamentalmente con uno stronzo, un chirurgo arrogante che si sente Dio perché, beh, è il migliore sulla piazza, solo che poi a tirarsela troppo finisce che il karma presenta il conto.
Segue infatti grosso incidente d’auto, un bello spottone su come non si debba usare il telefono alla guida (no, cagacazzi, NON stava giocando a Pokémon Go), e mani rovinate a vita, ciao carriera, ciao Dottore.


Dopo aver speso tutto in cure mediche inutili, l’unica possibilità pare risiedere in un mistico guru da qualche parte in Nepal, così Strange intraprende un viaggio che andrà al di là di ogni immaginazione e che cambierà la sua vita per sempre: quel guru è infatti l’Antico, celtico mistico impegnato a difendere il mondo dalla Dimensione Oscura di Dormammu in veste di Stregone Supremo.
Sin da subito, per la prima volta all’interno di questo Marvel Cinematic Universe, con DOCTOR STRANGE si respira aria nuova: certo il personaggio ricorda molto il Tony Stark pre-ironmanizzato, e il viaggio alla ricerca di una cura/miglioramento di sé sembra preso di peso dal Batmannolaniano, ma le origini sono quelle non ci si scappa, e il bello arriva proprio da lì in poi.
La crescita spirituale e mistica del personaggio è gestita molto bene, con il wow-factor che punta sempre al rialzo sia per intensità che realizzazione (avete presente l’addestramento di Neo in Matrix? Ecco, meglio), e più il film prosegue più si rafforza l’idea di una storia costruita finalmente come si deve, un film dal ritmo invidiabile senza momenti di stanca dall’inizio alla fine che costruisce perfettamente le basi, le stravolge e le porta a compimento in poco meno di due ore di durata. Punto.



Non siamo certo davanti allo stato dell’arte, sia chiaro, è semplicemente il modo in cui tutte le storie dovrebbero essere realizzate, con una struttura di base solida e forte, ben consci che il resto è corollario.
Ma si sa, a Hollywood Christopher Vogler e il suo Viaggio dell’Eroe se lo cagano poco o niente, a giudicare da quello che arriva al cinema ultimamente.
DOCTOR STRANGE è si ambientato nel MCU (e temporalmente contestualizzato: l’incidente di Strange ha luogo durante i fatti di Iron Man 2, vediamo se siete bravi a scovare la dritta ;D), si accenna anche agli Avengers in un paio di occasioni e si allude alla loro importanza per il destino della Terra ma il tutto avviene al di fuori dai loro radar, in quanto i casini ultraterreni riguardanti il multiverso non sono (almeno per ora) di loro competenza.
L’arcano mondo della magia irrompe nell’universo Marvel Cinematografico espandendolo e aprendo a personaggi e scenari inediti, proprio come fece Guardiani della Galassia per la sfera “spaziale” un paio di anni fa, e i pregi di DOCTOR STRANGE risiedono anche nell’approccio col quale vengono di nuovo ribaltate le regole di un gioco che ormai tutti davamo per assodate.



Benedict Cumberbatch, già di suo molto somigliante, dà vita a un personaggio diverso da quello cartaceo: meno borioso e donnaiolo, addirittura leggero e ironico in diversi frangenti, ma sempre intenso e dalla grande potenza scenica. Il fatto che abbiano fortunatamente modificato il costume dei fumetti (quel pigiama orribile, santo cielo) ha sicuramente contribuito.
Il resto del cast risulta molto ispirato e non si limita certo a fare da contorno: Tilda Swinton (Broken Flowers, Grand Budapest Hotel, quelle robacce di Narnia), contestata inizialmente dai fumettari frangimaroni, è un Antico coi fiocchi, deciso e benevolo; Chiwetel Ejiofor (12 Anni Schiavo, l’assassino bastardo di Serenity) un giovane Mordo molto diverso dalla sua controparte cartacea e una vera sorpresa; Rachel McAdams (Sherlock Holmes, Il Caso Spotlight ) si riconferma attrice molto versatile e completa; l’unico sottoutilizzato a parer mio è il Kaecilius di Mads Mikkelsen, un personaggio che riunisce diverse caratteristiche di alcuni nemici storici del Dottore ma risulta quasi una macchietta, un ruolo quasi minore data la bravura del suo interprete (Casino Royale, Il Sospetto, la serie TV Hannibal), anche se riesce comunque a donare al suo villain quella scintilla di follia utile alla causa.



Con alla base una storia così solida è ovviamente un piacere vedere effetti speciali così funzionali e dalla splendida realizzazione: le fasi “alla Inception” e le dimensioni del multiverso sono una gioia per gli occhi, gli effetti dei duelli di stregoneria rendono bene nonostante quelle “lame magiche” siano una mezza poverata, gli stunt e le coreografie di combattimento sono realizzati in maniera funzionale e soprattutto la battaglia a Hong Kong in rewind spinto è una vera meraviglia.
Con DOCTOR STRANGE si è voluto introdurre un personaggio classico riplasmandone il carattere per farne un protagonista iconico che riesca ad essere epico nonostante la butti più volte sul ridere nei momenti meno opportuni, addolcendone di molto i caratteri e preparandolo ad un ruolo centrale dell’MCU (si, sarà il nuovo Tony Stark).
E’ il miglior Marvel Movie in circolazione? No, non lo è, non lo inserirei nel mio terzetto da podio per dire, ma è uno di quei film (come Guardiani della Galassia o Ant-Man) con i quali si esce dalla sala col sorriso sulle labbra, gasato il giusto, divertito il giusto, carico e ansioso di rivederlo al più presto all’interno dell’MCU.
DOCTOR STRANGE è un buon film, un nuovo tassello cardine del grande universo Marvel perfettamente fruibile e godibile da chiunque (anche da chi di supereroi non sa niente/non vuole sapere/non dà confidenza) che funziona alla grande. Di questi tempi hai detto niente.


IN BREVE: Film solido, ben ritmato, divertente e appagante. Ottimi Effetti speciali funzionali al racconto, buona colonna sonora, interpreti azzeccati. I Marvel Studios ne hanno infilata un’altra.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:8

LA RAGAZZA DEL TRENO - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Recensione che arriva in leggero ritardo per vari casini che non volete sapere, ma come promesso su Faccialibro ci siamo, arriva la rece de LA RAGAZZA DEL TRENO, contaminata in maniera virulenta da qualche giudizio a titolo assolutamente gratuito anche sul romanzo di Paula Hawkins dal quale ha avuto origine il tutto. Missione principale: evitare gli spoiler.
Doppia Rece quindi? Una e mezzo, via.



DUE SETTIMANE FA
Vengo ipnotizzato dal trailer visto per la prima volta in sala, rimango colpito principalmente dall’atmosfera di mistero e disperazione che trasudava dall’incipit in voice-over di Emily Blunt e da alcune inquadrature molto ben costruite, tanto da indurmi ad attenderlo con discreta scimmia.
Scimmia abbastanza agitata da convincermi nell’attesa a recuperare il romanzo da cui è stato tratto, nonostante fuori ci fosse la fila di gente che mi diffidavano dal farlo. Gente fidata, peraltro.
Tre giorni dopo l’avevo finito ed ero pronto al peggio: si sa che un film tratto da un romanzo che hai letto ti delude sempre, a maggior ragione se quel romanzo l’hai pure apprezzato.


OGGI
Ho visto il film e finalmente posso parlarne.
LA RAGAZZA DEL TRENO è una vicenda drammatica raccontata in modo furbo da tre punti di vista, è la storia di tre donne diversissime tra loro accomunate però da una sola, macroscopica caratteristica: l’infelicità congenita.
Questa infelicità porta la protagonista Rachel a idealizzare la bionda Megan, donna dalla vita apparentemente perfetta che ogni giorno “spia” dal finestrino del treno e della quale invidia la felicità coniugale, felicità che un tempo era sua, prima del divorzio dal marito, ora sposato con Anna.
La vita di Rachel è triste e monotona: viaggia in treno, vede Megan e rosica come un castoro col bruxismo pensando alla nuova famiglia dell’ex marito, beve come una spugna, si deprime, beve un altro po’, tormenta telefonicamente la famiglia dell’ex, rosica e beve, va a dormire e ricomincia da capo.
Questa è la routine, fino a quando per caso non vede Megan baciare un altro uomo.
Per poi scoprire il giorno dopo che Megan è scomparsa nel nulla, e che non ricorda nulla della sera prima.



Diciamolo subito onde evitare fraintendimenti: la forza de LA RAGAZZA DEL TRENO cartacea è proprio nel racconto alternato tra presente e immediato passato, tra il lasciar intendere al lettore un dubbio, un sospetto che lentamente si fa strada diventando certezza, confondendo più volte le acque in modo intelligente.
Non è tanto la storia in sé (che non è affatto male, anche se non è niente di nuovo) a rendere LA RAGAZZA DEL TRENO un romanzo avvincente, ma proprio la meccanica ad incastro dei tre punti di vista col pedale calato sull’introspezione spinta a dare vita ad un intreccio che, per quanto semplice, tiene inchiodato il lettore dall’inizio alla fine.
Il vero problema era uno: come tradurre su pellicola un tipo di racconto come questo, in qualche modo personale, incastrandolo a forza in un thriller pettinato come quelli che al cinema vanno per la maggiore negli ultimi tempi? Purtroppo, è un problema che per buona parte è diventato IL problema.



Non voglio fare un paragone tra romanzo e film, sia chiaro, ma IL problema si ripercuote inevitabilmente sul secondo in maniera non poco marcata: nel cambio di media si deve inevitabilmente limare l’eccessività descrittiva del romanzo, si tagliano e accorpano personaggi, si fa parlare spesso le immagini piuttosto che dare sfogo ai pensieri dei protagonisti, ma se c’è un fattore di cui non dimenticarsi mai è il ritmo.
LA RAGAZZA DEL TRENO cinematografica ha una regia ottima dal lato prettamente visivo, è stracolmo di inquadrature studiate molto bene e dettagli evocativi, ma si perde via fin troppo facilmente nella costruzione del dramma a causa di un ritmo lento (quando non addirittura comatoso) che cozza inevitabilmente sia col romanzo ispiratore sia con l’aura da thriller emozionale che tanto vorrebbe avere, riuscendoci solo in parte.
Il primo paragone che viene alla mente guardando il film di Tate Taylor, ma anche leggendo il romanzo se è per questo, è sicuramente

*

in maniera anche parecchio evidente, peccato che LA RAGAZZA DEL TRENO pur facendo degnamente parte della combriccola sopracitata sia decisamente quello meno riuscito.







La tensione è costruita in modo troppo scostante fino a sconfinare nella noia, e se a metà romanzo capisci chi sia il colpevole, nel film non ti viene nemmeno il dubbio, dato che il personaggio di Lisa Kudrow (mitica Phoebe di Friends) sembra piazzato lì proprio per spiegarlo anche agli ultimi interdetti che non c’erano ancora arrivati rovinando quel dubbio di cui si accennava prima e lasciando il finale crollare miseramente su una “resa dei conti” banale e telefonatissima, il ché in un thriller o sedicente tale fa cascare abbastanza le braccia, diremo.
Come nel romanzo, tutta la baracca viene sorretta da queste tre donne, personaggi autolesionisti fino al fastidio e incredibilmente fragili, che con le loro scelte discutibili a fiotto continuo portano la vicenda a compimento, solo che per quanto Emily Blunt sia come sempre brava nei panni di un personaggio non semplice, le altre due donne in questione (Haley Bennett femme-fatale monoespressiva e Rebecca Ferguson casalinga disperatissima) riescono a dare nuovi significati al concetto di “essere completamente fuori parte”, mentre gli uomini fanno da tappezzeria (attiva eh, ma pur sempre di tappezzeria si tratta).







Buono e appropriato il comparto musicale che poi però si dimentica abbastanza in fretta, ottima la fotografia che purtroppo paga la lentezza della messa in scena.
Mi rendo conto che tutto questo potrebbe sembrare una stroncatura, ma vi assicuro che lo è solo in parte: LA RAGAZZA DEL TRENO, nonostante tutti i suoi limiti, resta un buon thriller che si lascia guardare e apprezzare per come gestisce la storia a incastro e il dipanarsi progressivo della risoluzione, gettando ombre su tutti i protagonisti trascinandoli costantemente in un’atmosfera d’incertezza e sfiducia reciproca.
Manca però di ritmo, il che non è poco, e di quella sensazione di ansia crescente che un buon thriller dovrebbe saper trasmettere e mantenere alta fino al suo picco emotivo finale, cosa che qui purtroppo non accade, ed è un peccato avendo alle spalle un bestseller come quello di Paula Hawkins (che l'anno scorso a quanto pare si sono letti tutti tranne me), perché magari in altre mani sarebbe potuto uscirne un film molto più compatto.




IN BREVE: Storia malata, stracolma di personaggi autolesionisti e profondamente infelici, un buon intreccio raccontato da diversi punti di vista e sfasato temporalmente minato da un ritmo fin troppo lento e prolisso.
Trasposizione non facile visto il materiale di partenza, ma sul genere si è visto molto meglio.
VOTO:
6 ½



















*SPOILER!!

Ok, come non detto, volevo fare la sboronata col tasto SPOILER ma niente, Blogger mi odia, quindi i titoli sopracitati ve li piazzo qui, che ovviamente sono...ehm...beh, SPOILER:
Dicevamo, il film (e il romanzo prima di lui) al primo impatto, sia come tematiche che come ambientazione suburbana piena di bastardi traditori e mogli zoccole che neanche una puntata di Uomini e Donne, prende a piene mani dall’ottimo Gone Girl – L’amore Bugiardo di David Fincher, ma diversi elementi vengono anche da In Trance di Danny Boyle, da Le Verità Nascoste di Robert Zemeckis e da Match Point di Woody Allen. Un caso? Alla Hawkins piace molto il cinema di genere? Non lo sapremo mai.
Quindi, se sapete fare 2+2 avrete già capito cosa succede nel film e per quale motivo doveva per forza di cose essere messo sotto SPOILER.
Se avete letto preda della curiosità e vi siete rovinati così il film, beh, io vi avevo avvertiti ;)















MASTERMINDS I GENI DELLA TRUFFA - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Parliamoci chiaro, realizzare un film su una rapina fantastilionica in dollari?
Ormai lo fanno tutti, l’abbiamo visto in tutte le salse, l’hanno fatto pure i ragazzi di
Fast&Furious al quinto capitolo, quindi la questione è: come fai a giocarti lo stesso tema facendo qualcosa di diverso dal solito?
Che domande, la butti caciarosamente in minchiata!

Quindi questo MASTERMINDS - I GENI DELLA TRUFFA ha centrato il bersaglio?
Se “centrare il bersaglio” significasse un film in grado di far crescere una certa tensione tutta attorno al super colpo grazie ai classici meccanismi del genere (reclutamento/pianificazione/esecuzione), magari infarcendo il tutto con una buona dose d’ironia alla
Ocean’s Eleven/Thirteen, allora la risposta sarebbe un no bello deciso.
Questo perché il film di Jared Hess (
Napoleon Dynamite, Nacho Libre) alla rapina concede il minutaggio minimo, quanto basta da farne un semplice pretesto per far fare ai suoi protagonisti deficienti una marea di cose deficienti.



Il bello è che queste idiozie, incredibile ma vero, messe in mano alle facce giuste funzionano pure, ma se i tempi comici non vengono gestiti come Dio comanda ci si ritrova per le mani una commedia dalla corrente alternata.
Per quanto sia sconcertante pensarlo a maggior ragione dopo aver visto il film, MASTERMINDS è effettivamente “tratto da una storia vera”, fa quindi parte di quel filone di storie liberamente tratte da fatti di cronaca, come in questo caso la seconda più remunerativa rapina in contanti della storia americana.
Come detto, però, invece di buttarsi sulla pellicola d’azione classica come sarebbe stato lecito aspettarsi, questa volta si è scelto di girare il tutto in commedia scema, sovraccaricando i personaggi e dando a Zach Galifianakis il ruolo di unico mattatore, compito pesante se si pensa che al suo posto avrebbe dovuto esserci il grande Jim Carrey.



Galifianakis, reduce dalla vincente trilogia di
Una Notte da Leoni (ma anche da Birdman)è praticamente il nuovo astro nascente della comicità USA, e si può dire che MASTERMINDS si poggia (quasi) completamente su di lui.
Protagonista e snodo nevralgico di (quasi) qualunque gag, Zach Galifianakis ha la capacità innata di strapparti un sorriso ogni volta che entra in scena con la sua aura da perfetto imbecille, e tutti gli altri protagonisti gli ruotano attorno entrando nel mood giusto.
Ma.
Caso vuole che il mood giusto sia un connubio tra una comicità terra terra e una da cinepanettone, il che mi ha fatto vergognare come un ladro per aver trovato la forza di ridere ad alcune tra le gag più basse possibili e immaginabili (es: quella della piscina), mi sono sentito in colpa, non è la comicità che piace a me, nessuna battuta tagliente, zero sarcasmo, niente comicità intelligente, niente.
Eppure, con le sue stronzate portate all'eccesso, valicando più volte il confine con la demenzialità, funziona.






Galifianakis la fa da padrone, ma anche Owen Wilson ci mette del suo meglio, e Jason Sudeikis col suo personaggio assurdo mi ha ucciso. Non posso dire lo stesso dei character femminili, con Kristen Wiig che vivacchia con un personaggio normale in mezzo a un universo di idioti, e  Leslie Jones che non riesce a non essere la solita macchietta, nonostante qualche risata la strappi anche lei.
MASTERMINDS - I GENI DELLA TRUFFA è un film scemo che trova la sua forza nei personaggi assurdi che ti sbatte in faccia dall'inizio alla fine, in attori affiatati e situazioni al limite del demenziale che nel suo piccolo (da barzelletta sopra le righe quale in fondo è), contro tutte le aspettative, funziona (a tratti) e diverte senza troppo buongusto, ma con lampi di comicità non indifferenti.
IN BREVE: Commedia americana scema fino al midollo con uno Zach Galifianakis mattatore e gag da cinepanettone e poco meglio, ma nel complesso diverte.
Resta comunque un film da vedere quando non si ha proprio un cazzo d'altro da fare.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 6,5

ANIMALI FANTASTICI E DOVE TROVARLI - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Questo 2016 è stato un anno importante per la magia cinematografica, intesa in senso stretto.
Dopo il riuscito Doctor Strange dei Marvel Studios, infatti, si torna a bomba nell'altro mondo magico ideato da J.K.Rowling con quello che può essere considerato uno spin-off della pluripremiata saga di Harry Potter: parliamo ovviamente di ANIMALI FANTASTICI E DOVE TROVARLI, il nuovo film ambientato in quello che possiamo definire il nuovo “universo magico espanso” Rowlingiano, e per scoprire quanto questi orizzonti siano stati estesi non resta che…entrare in una valigia di pelle marrone […]





Newt Scamander si presenta al pubblico babbano con l’aria schiva e solitaria di uno che ha attraversato l’oceano e, come raccontava Tornatore nel meraviglioso La Leggenda del Pianista sull’Oceano, che è il primo ad alzare gli occhi e a vederla: l’America.
Nonostante gli abiti leggermenteappariscenti, il nostro sembra un giovane inglese come tanti, ma non lo è: Newt Scamander è un mago, un magizoologo per l’esattezza, impegnato a viaggiare per il mondo con uno scopo ben preciso, scopo che in questa occasione l’ha portato in una New York in pieno proibizionismo, accompagnato solo da una valigia molto, molto speciale, ed è proprio uno scambio di valigia da commedia degli equivoci con un No-Mag (sinonimo di “babbano” negli USA, un uomo senza poteri magici) a dare inizio ad una nuova, fenomenale avventura.
Se è vero che l’universo di Newt è lo stesso nel quale si svolgevano tutte le vicende dei film precedenti, tempo e luogo non potrebbero essere più diversi: siamo negli anni 20 del secolo scorso, infatti, e per la prima volta all’interno della saga cinematografica non siamo più ad Hogwarts, non siamo più nemmeno in Gran Bretagna a dire il vero, ma esattamente dall’altra parte del mondo, non più in una scuola ma in una città immensa e vibrante, con altri costumi e altre regole, un mondo vecchio e tutto nuovo sia per Newt sia per noi spettatori.



Ed è un mondo nuo
vo in tutti i sensi, dato che per la prima volta non si tratta della riduzione di un romanzo dell’autrice, ma di una sceneggiatura originale della stessa J.K.Rowling che, a differenza di quella mezza porcheria dell’ottavo libro (che non è suo, ricordiamolo, ma sviluppato per il teatro da due tizi che la saga non l’hanno probabilmente mai letta, e si vede), sembra finalmente tornata in forma smagliante.
La vecchia Zia Jo firma un nuovo capitolo che è al contempo un nuovo inizio e un diverso punto di vista dal quale ammirare e rivivere il suo solido universo fantasy, un mondo con una mitologia ben definita e riconoscibile da milioni di appassionati in tutto il mondo.
La prima cosa che colpisce di ANIMALI FANTASTICI E DOVE TROVARLI è sicuramente la splendida ricostruzione della New York anni 20, una location ricchissima di dettagli che si estende a perdita d’occhio e che contribuisce a contestualizzare in maniera perfetta lo splendore dell’epoca.
Vi lascerà a bocca aperta, garantito.



In questo contesto si muovono i vari e
d eccentrici protagonisti che Newt (il bravo Eddie Redmayne, fresco di Oscar) trascinerà, volenti o nolenti, nella sua personalissima avventura: il No-Mag Jacob, perfetta spalla comica della pellicola che scoprirà il mondo della magia, perfetto punto di riferimento dello spettatore come lo era Harry al tempo; Tina Goldstein e la sorella Queenie, rispettivamente ex-Auror e legilimens, personaggi strambi e perfette compagne di viaggio; Percival Graves (Colin Farrell, perfetto con la sua faccia da stronzo) Auror integerrimo del Magico Congresso degli Stati Uniti d’America, e la sua presidentessa Seraphina Picquery; e poi ancora l’inquietantissima famiglia Barebone, gli Shaw, Credence, Grindelwald…
Eh si, Grindelwald, e non solo lui, l’intero film è giustamente disseminato di riferimenti alla saga, riferimenti piazzati nei posti giusti che contribuiscono ad arricchire la pellicola e rifinire il quadro generale di questo nuovo universo magico espanso, che possono essere colti (potterhead) o meno (tutti gli altri) senza che la fruizione della pellicola possa minimamente risentirne.



Inutile dire che gli effetti speciali fanno sicuramente la voce grossa in una pellicola piena di gente che si smaterializza, di incantesimi lanciati a uffo e creature magiche tra le più varie e disparate ma, come in ogni buon fantasy che si rispetti (leggi=fatto come si deve), non risultano mai fuori posto e si fanno quindi valore aggiunto e non mero tappabuchi per una sceneggiatura inconsistente che non sa dove andare a parare tipica dei fantasy da discount tipici dell’ultimo decennio (Alice in Wonderland e Maleficent in prima fila).
C’è posto per l’oscurità e per una neanche tanto velata contaminazione dall’horror, come d'altronde gli ultimi Harry Pottercinematografici (e in ogni caso l’intera saga letteraria) ci aveva abituato, e un paio di plot twist sono davvero ben architettati e gestiti con buonsenso, regalando al film un’aura di misticismo non indifferente, e per una volta anche da David Yates, bistrattato (a ragione) regista degli ultimi 4 film del maghetto, ritrova qui una regia dal respiro molto più ampio ed evidentemente di gran lunga più nelle sue corde: per la prima volta sembra davvero all’altezza della situazione, diverse scelte registiche appaiono decisamente azzeccate per inquadrature e tempi scanditi nel modo giusto, rispetto al livello televisivo dei precedenti film un risultatone. Bravo Yates.



L’unica pecca forse la troviamo nel comparto musicale che da sempre caratterizza perfettamente la saga, non sbaglia neanche stavolta, va detto, per quanto pare vivacchiare un po’ troppo di rendita.
Lo scetticismo col quale (io per primo, eh?) è stato accolto questo film, tacciato spesso di mero espediente da parte di Warner per mungere la vacca magica finché ce n’è, si scioglie senza riserve alla visione di quello che possiamo tranquillamente etichettare come uno dei migliori film realizzati sul mondo magico della Rowling sotto praticamente ogni aspetto: un mondo che prende vita, coinvolge e diverte lo spettatore con i suoi personaggi azzeccati e la sua storia avvincente riportandolo, con gli occhi pieni di meraviglia, in quel magnifico e magico universo che abbiamo imparato ad amare.
E’ presto per dirlo, altri 4 film sono previsti (con una cadenza di uno ogni due anni), ma se le premesse sono queste, e sapendo che la Rowling è maestra nella pianificazione a lungo termine, ne vedremo ancora delle belle.



IN BREVE: Un ritorno in grande spolvero nell’universo magico di J.K.Rowling, nuovi protagonisti azzeccati, una storia completamente originale e coinvolgente, effetti speciali favolosi, scenografie splendide, regia ispirata. Sense of  wonder a manetta. Voglio uno Snaso ammaestrato. Buona la prima!
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8 ½

SNOWDEN - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Non è un documentario, ma è tratto da una storia vera.
Non è un thriller, ma un po’ di angoscia te la mette addosso lo stesso.
Non è un uccello, se per questo manco un aereo, ma è comunque un’altra storia.
Per tutti i fan del
gombloddoh!! che in effetti c’è stato (e con ogni probabilità c’è ancora) arriva SNOWDEN, il nuovo film di Oliver Stone.
Vogliamo parlarne? E parliamone…

Edward Snowden, simpatico sfigatello interpretato dalle orecchie a teiera di Joseph Gordon-Levitt, è un giovane patriottico intenzionato ad entrare nell’esercito degli Stati Uniti, ma la struttura ossea da fagoloso, la sfiga e una tibia in frantumi lo dirotteranno invece verso la CIA.
La sua eccellenza in campo informatico e la sua spiccata intelligenza gli permetteranno di fare strada, fino a quando non si accorgerà di qualcosa di veramente marcio e malato nel sistema di raccolta delle informazioni dell’Intelligence, anche e soprattutto nei confronti dello stesso popolo americano.
Questa consapevolezza, nel corso degli anni, gli porterà una serie di sfighe più o meno grandi, fino a che non si renderà conto di essere nella posizione di poter agire per cambiare finalmente le cose.



Tutto questo preambolo non è uno spoiler sulla trama, e non lo è per una semplice ragione: quella che Oliver Stone (
Platoon, Wall Street, The Doors, JFK) porta sullo schermo è la vita di Snowden così come raccontata dallo stesso protagonista e trattata nei libri The Snowden Files e Time of the Octopus, una vicenda scottante fin troppo di attualità che Stone, a differenza del documentario Premio Oscar 2015 Citizenfour di Laura Poitras, non si fa problemi a sbatterti in faccia dura pura e cruda, entrando schietto e violento nella questione e tirando sotto tutti come un treno.
E con tutti intendo proprio tutti: CIA, NSA, Governo USA, tutti, si fanno nomi e date perché ricordatevi che, quando il Gigante viene punzecchiato sul vivo, dietro ci sono sempre o Michael Moore o Oliver Stone. Garantito.



Il mezzo cinematografico viene utilizzato sapientemente per arricchire la vicenda Snowden e permettere al pubblico di sviluppare una maggior empatia per la sua storia, per la scelta morale che ha compiuto a discapito della sua stessa sicurezza, senza aggiungere scene d’azione forzate per far sembrare il suo protagonista un action hero da discount, principalmente perché, beh, non lo è.
Edward Snowden è principalmente un uomo comune, un genio informatico che si trova nella spiacevole posizione di dover scegliere tra ciò che è facile (fare il suo lavoro e lasciar inguaiare la privacy di tutti quanti) e ciò che è giusto (sputtanare le più importanti agenzie d’Intelligence davanti al mondo intero e rischiare di persona, magari rimettendoci pure la pelle), e questo il film lo mette perfettamente nero su bianco: le ansie, le incertezze, le paranoie, la paura, i tentennamenti, senza dover per forza farlo saltare da un palazzo all’altro in fuga dagli agenti speciali o chissà che.



Certo se si sta cercando un film adrenalinico o un thriller d’impatto alla
Seven si dovrà cercare per forza di cose da un’altra parte: il film di Stone punta decisamente tutto sull’angoscia del protagonista, sul senso di oppressione e sull’ansia di essere scoperto, e quest’ansia riesce perfettamente a trasmettertela allo spettatore, zoppicando per contrasto sul ritmo che la pellicola inevitabilmente deve tenere.
Fortunatamente il cast riesce egregiamente a reggere la baracca, a partire da Joseph Gordon-Levitt che, per quanto continui a ritenerlo un attore ampiamente sopravvalutato, sarà per somiglianza fisica o proprio per quella sua apparente apatia inespressiva, sembra essere nato per il ruolo.
Tanti i grandi nomi in ballo, tutti molto in parte, da un granitico e bravissimo Rhys Ifans al sempre adorato Tom Wilkinson, da quella faccia da perfetto stronzo di Timothy Olyphant a un simpatico Nicolas Cage, passando per le particine dei bravi Melissa Leo e Zachary Quinto.



Continuerò a calare un velo pietoso su Shailene Woodley e sulle sue presunte nonché sbandieratissime capacità recitative. Tutta colpa delle stelle (cadenti).
SNOWDEN fa parte di quel cinema di denuncia che pochi eletti, ai margini di quella zona calda del panorama cinematografico mondiale dominata da blockbuster/reboot/remake/filmconadamsandler, portano strenuamente avanti per non relegare il cinema a mero intrattenimento per le masse.
Ma anche senza scene d’azione, anche sotto il peso di una struttura volutamente ripetitiva e alienante nel suo concatenarsi di sfighe e ripensamenti, SNOWDEN riesce a toccare le corde giuste restando estremamente fedele alla realtà dei fatti diventandone cronaca effettiva e denuncia aperta.
Non il film più facile di Stone, né di sicuro il più riuscito, ma senza dubbio una buona prova d’autore.
Plus: la neo-sconfitta Clinton ne esce anche qui, proprio sui titoli di coda, con un’ennesima figura di merda non indifferente.
E’ proprio il tuo anno, Hillary!



IN BREVE: Cronaca di uno dei capitoli più incresciosi di sempre sul discorso privacy mondiale raccontato attraverso gli occhi e la voce di uno che c’era dentro fino al collo e se n’è chiamato fuori.
L’Intelligence USA non l’ha presa proprio bene.
 
Tra il didascalico e il documentaristico, buoni interpreti, regia ispirata, i complottisti ringraziano.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7 ½

ROGUE ONE - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Inizialmente, lo ammetto, ero molto perplesso dall’approccio Disney nei confronti della mia saga preferita.
Ero ovviamente felice che l’epica di
Guerre Stellari proseguisse, soprattutto dopo l’estromissione del Panzone Flanellato, ma l’idea di uno spin-off non mi entusiasmava, mi sembrava troppo un modo di allungare il brodo per mungere la vacca, un “finchè ce n’è viva il re” spaziale, e…beh, c’ho preso per metà.
E no, per una volta non è una cosa negativa.

Senza dilungarmi troppo né (come da titolo) spoilerare niente a nessuno, ROGUE ONE – A STAR WARS STORY è proprio quello che il titolo americano, ovviamente perso nella traslitterazione per questo nostro paese di imbecilli che modificano titoli ad minchiam, dichiarava fin da subito: è una storia di Star Wars, una storia che si colloca alla perfezione nel contesto di un preciso e conosciutissimo universo narrativo arricchendolo, e prendendosi pure la briga di dare un qual senso di credibilità ad uno dei punti più deboli dell’intramontabile capostipite.
Non vi dirò né cosa né come, tranquilli, ve lo lascerò scoprire da soli, sappiate solo che ROGUE ONE c’ha messo una pezza bella grossa, contestualizzando la questione e ricamandoci intorno talmente bene da farvi vedere
Una Nuova Speranza sotto una nuova luce.
Speranza. Dopo ROGUE ONE questa parola non vi mollerà più.



D’altra parte la speranza è l’unica forza alla quale aggrapparsi nei momenti più tetri, è la forza da trovare dentro sé stessi quando tutto attorno va tragicamente a puttane, è in questo film il motore di una ribellione in fasce, un gruppo insurrezionalista mai così violento e disperato, lontano dal buonismo percepito e voluto sin dagli albori della saga.
Qui la ribellione si mostra dura e decisa, impegnata in una guerriglia destabilizzante su vasta scala perennemente oltre il confine del lecito, e il tutto viene condensato splendidamente nel personaggio del Capitano Andor, un ufficiale ribelle con le mani sporche di sangue come non se n’erano mai visti: il suo ingresso in scena è fulminante, e delinea perfettamente la drammatica situazione d’instabilità in cui si svolgerà l’intera vicenda che vedrà la giovane Jyn Erso involontaria protagonista del primo evento cardine nella storia dell’Alleanza Ribelle: il furto dei piani della Morte Nera.



Ammetto tutte le mie perplessità iniziali: Gareth Edwards non è decisamente il mio regista preferito, il suo
Monstersl’ho trovato giusto passabile, Godzillaancora meno riuscito e decisamente noioso, ma nonostante le premesse (e giocando facile su un campo che tutti noi amiamo da, boh, sempre) riesce qui nel difficilissimo compito di farci appassionare a personaggi nuovi e ad una storia di cui, per forza di cose, conoscevamo già il finale fin dal 1977. Hai detto niente!
ROGUE ONE racconta un antefatto fondamentale di cui avevamo avuto solo un breve accenno in passato, e lo fa prendendosi tutto il tempo per contestualizzare un ben preciso clima di tensione e montare l’interesse dello spettatore attorno alle parti in gioco, annodando a doppio filo situazioni e personaggi a luoghi e protagonisti storici tenendoli però (quasi) sempre in secondo piano, per dare modo alla guerra sporca tra una ribellione al limite del terrorismo e un impero potente mai così concreto di svilupparsi e deflagrare in una battaglia finale enorme.



Per quanto la parte iniziale risulti davvero lenta e financo sonnacchiosa (anche se mai ai limiti di pallosità raggiunti da Tarantino), il film segue uno sviluppo abbastanza classico e infatti, una volta gettate le basi, decolla e ci regala una movimentata pellicola ricca d’azione, dramma, morte, sacrificio e speranza.
Edwards adotta un approccio da fan per raccontare quello che in fin dei conti è il vero e proprio prequel della saga, un prequel di cui fondamentalmente ci frega davvero qualcosa (ciao, trilogia-che-non-esiste), dissemina la pellicola di citazioni e spunti gridando senza vergogna il suo amore per l’originale e ne dirige col cuore da appassionato un riuscitissimo omaggio, realizzando una ricostruzione incredibilmente dettagliata di un mondo unico e iconico, perfettamente riconoscibile, giocando inoltre con un punto di vista più ampio e sfaccettato rispetto all’iconografia classica.
Una nuova visione che tinge di lati oscuri i nuovi protagonisti, soldati e civili impegnati in una causa più grande di loro, come Jyn e il Capitano Andor, ma come anche il guerriero cieco Chirrut, l’estremista paranoico Saw Gerrera, il favoloso droide K-2SO, quella faccia da stronzo di Mads Mikkelsen.



Poi ovviamente c’è Darth Vader, e le poche volte in cui compare si mangia la scena, il fan service va alle stelle e vorresti subito uno spin-off su di lui, e visto come vanno le cose di questi tempi ci starebbe pure tutto, senti.
ROGUE ONE, pur non essendo un film perfetto e appesantito da una parte iniziale piuttosto lenta, risulta essere una pellicola matura, che si accosta con rispetto e s’inserisce perfettamente nella mitologia di Star Wars non ampliandone in senso stretto l’universo ma mettendone a fuoco uno dei capitoli meno conosciuti, arrivando ad arricchire in modo credibile eventi e situazioni che davamo per assodate, ma è anche un film per i fan, realizzato da gente che Guerre Stellari ce l’ha nel cuore.
E si vede.



IN BREVE: Il prequel di cui avevamo bisogno e che la trilogia-che-non-esiste non è mai stata.
Oscuro e disperato, la guerra sporca della ribellione parte lenta ma quando decolla non si ferma più, e il film si ricollega in maniera perfetta a Una Nuova Speranza fra personaggi nuovi e classici. Il film più maturo della saga, fatto col cuore, da un fan per i fan. Da vedere.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8


SPECIALE CINEMA 2017: L'ANNO CHE CI ASPETTA

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Il 2016, oltre ad essere stato un anno da fottuta ecatombe per la nostra infanzia cinematografica (un pensiero va a tutti i grandi e piccoli che ci hanno lasciato) è stato anche un anno molto ricco per quanto riguarda la proposta cinematografica.
Certo, non tutto è stato
degno di nota, diversi tipi di spazzatura ce la siamo puppata senza gastroprotettori facendo danni più o meno gravi, altre cose sono state all’altezza delle aspettative e altre ancora si sono rivelate l’anima dell’annata cinematografica, insomma ne abbiamo viste d’ogni.
Ok, l’anno non è ancora finito, e le somme magari le tiriamo un’altra volta, ma intanto perché non fare una bella panoramica di quello che ci aspetterà nel 2017?
Segue infatti listone tendente a +infinito sulle pellicole più o meno nerdose che ci aspettano nell’anno che verrà, selezionate minuziosamente secondo il criterio puramente scientifico del “me ne frega effettivamente qualcosa” in varie sfumature d’interesse, motivo per il quale non troverete Passengers, Wonder Woman o Power Rangers.
Ok? Buona, cominciamo che è lunga:



ASSASSIN'S CREED (5 GENNAIO)
Se ne parla da una vita, finalmente arriva, sperando che nella trasposizione dal videogame Ubisoft al film sia rimasto qualcosa di evocativo, di iconico, o anche semplicemente da salvare.
Il regista è quello di Macbeth, i protagonisti sono…quelli di
Macbeth, Marion Cotillard e soprattutamente Michael Fassbender, che si deve fare in qualche modo perdonare dal popolo nerd il suo Magneto in discesa pindalica progressiva degli ultimi tre X-Men.
Storia originale, tante strizzate d’occhio ai fan e l’epica della saga, ma anche un minimo di approfondimento psicologico sbandierato da Fassbender, anche perché i soldi ce li ha messi lui.
Occhio dell’aquila mode on.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio


ALLIED - UN'OMBRA NASCOSTA (12 GENNAIO)
Se ne parla da una vita, più che altro per la presunta tresca nata sul set tra la Cotillard (ancora lei) e Brad Pitt, con i casini coniugali che ne sono seguiti.
Seconda Guerra mondiale, storia di spionaggio e doppi giochi, sia politicamente che di coppia, in quello che sembra essere un thriller psicologico sotto l’egida del terzo reich.
Oltreoceano se lo sono già visto e in diversi l’hanno paragonato a
Le Verità Nascoste Nazi Edition, senza fantasmi e robe soprannaturali assortite ma ripieno di tanti coglioni col passo dell’oca facile.
Ironia della sorte, il regista è sempre Robert Zemeckis. Un caso?
Noi di Voyager crediamo eccetera eccetera.
Sta di fatto che un film di Zemeckis va visto a scatola chiusa e buona così.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto


XXX - IL RITORNO DI XANDER CAGE (19 GENNAIO)
Il successo del primo XXX si deve alla faccia da buttafuori compagnone di Vin Diesel e al fatto di essere una parodia burina di 007 (quello dell’era pre-Craig, quando 007 non se lo cagava più nessuno), film destinato alla generazione Fast & Furious piena di stunt, robe che esplodono e macchine/moto/barche con qualche cavallo di troppo.
Dopo un secondo capitolo con Ice Cube ignorato giustamente dal mondo ecco arrivare il terzo, che promette di rimettere in carreggiata il brand riproponendo gli stessi ingredienti.
Il
trailer promette cafonate fuori parametro, gli amici scemi e le birre ve li dovete portare da casa.
LIVELLO D’INTERESSE: Medio


ARRIVAL (19 GENNAIO)
Altra pellicola apprezzatissima in USA che arriva in differita qua da noi col suo carico eccezionale di navette aliene dalla forma strana che da un momento all’altro compaiono sul pianeta senza apparenti scopi aggressivi. Invasione in atto? Ci stanno solo studiando? Si sentono soli? Hanno solo troppo tempo libero?
Vai a saperlo. Di certo si sa solo che Denis Villeneuve non è il primo scemo sulla piazza (suoi il tosto
Prisonerse Sicario e soprattutto il prossimo Blade Runner) e i grandi nomi nel cast non mancano: Forest Whitaker, Jeremy Renner e Amy Adams sono della partita, anche se sinceramente Amy Adams la sopporto come una malattia venerea, ma è sicuramente un problema mio.
In patria è andato benone, ma in patria hanno pure eletto Trump, quindi vuol dire tutto e niente.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio


RESIDENT EVIL: THE FINAL CHAPTER (16 FEBBRAIO)
La saga cinematografica tratta dal celebre titolo Capcom partita bene e mandata in vacca già dal secondo capitolo arriva finalmente alla sua conclusione, dove “finalmente” sta per “chiudete ‘sta carnevalata e reboottate tutto copiando spudoratamente i videogame che è meglio, grazie”.
Alice sta per affrontare la sfida finale accompagnata dal solito corredo di personaggi assurdi e mal inseriti, effetti speciali badabùm, fantahorror da discount, pretese di continuity LOL e zombi e mostrilli vari un tanto al chilo compresi nel prezzo.
Ma dopo esserteli visti tutti la voglia di vedere dove Anderson andrà a parare è più forte dell’istinto di autoconservazione, quindi probabilmente si va, controvoglia, ma si va.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Basso



LEGO BATMAN - IL FILM (9 FEBBRAIO)
Non è uno dei tanti filmetti brandizzati Lego in computer grafica farlocca che spopolano sulle reti tv nelle lande desolanti del digitale terrestre, ma un film vero e proprio, spin-off di quel gioiellino di The LEGO Movie: Lord e Miller qui producono, dirige Chris McKay, e il fatto che viene da Robot Chickenmi fa sperare non bene ma benissimo.
Batman e la sua galleria di spostati sono perfetti per una trasposizione sopra le righe e di spunti per una parodia ce ne sono un infinitilione, quindi si, ufficialmente non vedo l’ora.

LIVELLO D’INTERESSE: Alto




THE GREAT WALL (23 FEBBRAIO)
Tema: la grande muraglia cinese è stata eretta per tenere fuori mostri giganti.
Ha senso, se pensi che i cinesi c’hanno da sempre la fissa dei draghi, ne ha meno se hai visto
L’Attacco dei Giganti e sai che per quanto alto un muro va difeso, e non ce li vedi i cinesi combattere un Godzilla tarocco coi fuochi d’artificio, la vedi proprio grigia invece se alla partita prende parte un fuoriluoghissimo Matt Damon e mezzo cast di occidentali.
135 milioni di dollari d’investimento per questa co-produzione cino-americana per la regia di Zhāng Yìmóu (
Hero, La Foresta dei Pugnali Volanti), che in quanto a composizione d’immagine di solito non ne sbaglia una, poi vai a sapere.
LIVELLO D’INTERESSE: Basso



LOGAN (2 MARZO)
Terzo capitolo in solitaria per Wolverine, il pelosissimo mutante nano canadese interpretato da un bel figo alto e australiano, che dopo il non esaltante Le Origini e il disastroso L’immortale ci riprova buttando sul piatto la bellissima run Old Man Logane portando a compimento la sua avventura cinematografica.
Le premesse non erano buone, tenendo conto che la Fox non ha in mano i diritti di praticamente NESSUNO dei personaggi Marvel che vi compaiono, ma vuoi per l’ambientazione post-apocalittica, vuoi per la messa in scena opprimente e disperata, vuoi per la theme song di Johnny Cash, vuoi per quel divieto ai minori che
  finalmente è arrivato (e solo grazie all’ “effetto Deadpool”) beh, il trailerè un piccolo capolavoro.
Se il film sarà figo almeno la metà di quanto si è visto, ragazzi miei…occhio solo a non confonderlo con il film di
The Last of Us, perché si, in fondo è lui.
LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto


KONG: SKULL ISLAND (9 MARZO)
Ennesima squadra, ennesimo rebottone per raccontare di nuovo le origini, il ritrovamento del più celebre gorilla gigante della storia del cinema.
Produce Legentary Pictures, che un anno fa riportò sugli schermi anche Godzilla, il tutto col chiaro intento di farli scontrare per la gioia del settore edilizio nel 2020 con il già annunciato Godzilla vs. Kong, nella speranza che stavolta Godzilla si veda anche per più di tre minuti di film.
Tom Hiddleston, Brie Larson, Samuel L. Jackson, John Goodman e John C. Reilly (4 su 5 nel MCU, record!) e un sacco di creature giganti animate al computer per quello che si preannuncia come un remake del King Kong di Peter Jackson (quindi il remake di une remake di un remake) senza quella brutta tendenza alla narcolessia spinta.
Il
trailer almeno sembra tanta roba.
LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto



LA BELLA E LA BESTIA (16 MARZO)
Ennesimo remake live action Disney che campa sulla fama di uno dei propri classici animati di maggior successo di sempre, dato che la casa di Topolino, si sa, dopo aver comprato Marvel e Lucasfilm di soldi non ne ha fatti ancora abbastanza, pare.
Ufficializzato il fatto che si tratti di un musical che incorporerà le canzoni del film originale oltre ad altre scritte appositamente per la pellicola: in parole povere canteranno pure per andare al cesso.
I presupposti (
Alice in Wonderland, Maleficent, Cenerentola) non sono buoni, il cast sembra bello ricco ma bisogna vedere cosa ne tira fuori il regista di due film di quella piaga per l’umanità chiamata Twilight e di quella notevole palla infinita di Mr.Holmes…a occhio, potrebbe essere orchite fulminante. Si vedrà.
LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Basso




BABY DRIVER (16 MARZO)

Mix di giallo, action e commedia in tipico stile Edgar Wright, che vuol dire risate e citazioni a nastro, azione a tutto campo e montaggio da Oscar.
La fine del mondo non è stata poi tutta questa fine del mondo, ma Scott Pilgrimvs. the world aveva un suo perché, molti lo ricordano per L’alba dei morti dementi e Hot Fuzz era e resta un capolavoro moderno.
Non è stata ancora resa nota una cacchio di locandina, il che è abbastanza indicativo di quanto pecchino a livello marketing, quindi vi beccate questa foto di produzione photoshoppatissima e buona.
Dai che saltato
Ant-Manè la volta buona di tornare a fare la voce grossa. Forza Edgar!
LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto




LA CURA DAL BENESSERE (23 MARZO)
Thriller psicologico che si presenta inquietantissimo: il giovane dirigente di una compagnia si reca in un centro benessere in Svizzera per recuperare l’amministratore delegato della compagnia per cui lavora, solo che una volta là non lo fanno più uscite.
Coercizione, esperimenti illegali, angoscia o semplicemente ansia da prestazione, il thriller di Gore Verbinski è tutto da scoprire: a lui dobbiamo il primo
The Ring, la trilogia dei Pirati dei Caraibi e Rango, ma dovendosi ancora farsi perdonare Lone Ranger potrebbe essere l’occasione giusta per tornare sulla cresta dell’onda.
Gli danno una mano la faccia da psicopatico di Dane DeHaan e quella da stronzo di Jason Isaacs, una trama intrigante e un’ambientazione ansiogena. Bene così.
LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto



FAST & FURIOUS 8 (13 APRILE)
La saga del veloce e del furioso continua e sembra con non poche novità.
E come fai a mantenere alto l’interesse dopo sette capitoli? Semplice, mini le solide basi su cui la saga è stata costruita: il concetto di famiglia.
Vin Diesel, senza dir niente a nessuno, volta le spalle al gruppo e si unisce a una terrorista informatica (Charlize Theron) che utilizza le sue capacità contro la legge.
Toccherà alla famiglia fermarlo, ma sarà possibile? E sarà possibile riportarlo indietro?
La saga ci ha abituati a picchi qualitativi sempre più alti negli anni, trasformandosi da film di corse coatto di periferia nell'action esplosivo campione d’incassi per eccellenza.
Cast di grandi nomi, azione sfrenata, il regista di Giustizia Privatagarantisce spettacolarità e qualità.
Sinceramente? Dopo quelle chicche di
5, 6 e 7 lo aspetto con ansia. Venduto.
LIVELLO D’INTERESSE: Alto



GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL.2 (25 APRILE)
E cosa gli vai a dire a un James Gunn in forma smagliante come non mai? Niente, che vuoi dirgli.
Col primo
Guardiani della Galassia ha stupito tutti grazie al suo gruppo di misconosciuti antieroi spaziali, personaggi di serie D nel panorama fumettistico Marvel entrati di forza nell’immaginario collettivo grazie ad un film assurdo e divertente, lontano anni luce dal mood classico di un normale film di supereroi, un’avventura spaziale coloratissima piena di personaggi bislacchi e battaglie spaziali, in molti l’hanno etichettato come il nuovo Guerre Stellari e non puoi proprio dargli torto.
Noi siamo (Baby) Groot.

LIVELLO D’INTERESSE: Alto




KING ARTHUR: LEGEND OF THE SWORD (12 MAGGIO)
FORSE12 Maggio, visto che l'uscita è già stata posticipata ventordici volte, il ché solitamente NON è un buon segno...
Nei piani della Warner dovrebbe essere il primo capitolo di un’esalogia su Re Artù, affidato al Guy Ritchie del buon
RocknRollae dell’ottimo Sherlock Holmes (quello con Robert Downey Jr.), ma anche dei pessimi Operazione U.N.C.L.E. e Sherlock Holmes: Gioco di Ombre, quindi è tutto un cantiere aperto, si vedrà.
Di certo KING ARTHUR: LEGEND OF THE SWORD, che più che altro sembra il titolo di un episodio di He-Man, dovrebbe avere lo stile pop e il montaggio frenetico tipici dei film di Ritchie, la qual cosa per rivisitare il mito di Artù potrebbe anche funzionare, ma 6 film così li vedo molto male.
Escazzibur imbecille!
LIVELLO D’INTERESSE: Medio



ALIEN: COVENANT (19 MAGGIO)
Gioia e dolore nel cuore dei fan. Il trailer dice tutto e fors’anche troppo, ma dopo quella tragedia di sceneggiatura di Prometheuse dopo il modo in cui Ridley Scott ci ha presi tutti brillantemente per il culo con la storia del prequel diretto di Alien(scherzone! Era un reboot, ciao a tutti) il cuore continua a dire si ma l’istinto sente puzza di bruciato.
Scott anche stavolta giura e spergiura che si tratti del VERO prequel, e da quello che si è visto atmosfere, xenomorfi, androidi ed equipaggio sacrificabile sembrano tutti al loro posto, incrociamo le dita.
Richiesta di soccorso truffaldina attivata, io in ogni caso non me lo perdo.

LIVELLO D’INTERESSE: Alto



LIFE - NON OLTREPASSARE IL LIMITE (25 MAGGIO)
Sempre ansia da spazio, sempre parassiti alieni, sempre equipaggio sacrificabile e a soli 7 giorni di distanza!
Sicuri sia stata una buona mossa, con un titolo ingombrante come Alien a fiatarti sul collo e sbavarti alle spalle a tradimento? Così a occhio direi di no.
Nonostante tutto
il trailer mi ha dato vibrazioni positive (tutte quelle che Passengers invece si è perso per strada, quindi #ciaone) con Jake Gyllenhaal, Ryan Reynolds e Rebecca Ferguson alle prese con la prima, incazzosa forma di vita aliena da Marte a bordo della Stazione Spaziale Internazionale.
Potrebbe venirne fuori qualcosa d’interessante o una scopiazzatura da denuncia penale.
Di certo so solo che dovrò rifare la tessera del cinema.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto




LA MUMMIA (8 GIUGNO)
Ed eccolo qua, il rinascimento della Hollywood Monster della Universal.
Avete presente il divertente film con Brendan Fraser e Rachel Weisz del ’99? Ecco, c’entra niente.
Cioè, c’entra nel senso che nei piani della Universal questo remake con Tom Cruise e diversa altra gente (nessuno dal nome troppo altisonante perché quello di Cruise dev’essere là in alto, visibile e bello in grande) fungerebbe da reboot per tutto l’universo dei mostri cinematografico classico.
Non so quanto ce ne fosse bisogno, non so quanta gente correrà al cinema per vederlo, io di certo non mi strapperò le vesti se dovessi perdermelo, ma si sa mai, i film di Mr. Scientology spesso riservano belle sorprese. Spesso, non sempre.
Insomma sarà una mummia donna, ci saranno esplosioni, un sacco di gente morta male, una maledizione da annullare, solite cose. Se proprio quella sera non avete altro da fare…

LIVELLO D’INTERESSE: Medio




CARS 3 (15 GIUGNO)
Annunciato a sorpresa poco tempo fa con un teaserino breve e abbastanza crudo: Saetta McQueen in gara lascia dietro di se carrozzeria e diversi danni, che sia il suo canto del cigno?
Dopo un secondo capitolo sottotono, e quella parentesi patetica di
Planes, la storia di Saetta potrebbe concludersi con questo capitolo, sperando che davvero ci sia ancora qualcosa di valido da raccontare. Toy Story 3 ci ha mostrato come sia possibile realizzare un film struggente e meraviglioso anche al terzo capitolo, ma va anche considerata la qualità di una e dell’altra serie, e quella di Carsè stata negli anni decisamente altalenante. Sicuramente avremo l’ennesima realizzazione tecnica da urlo e comprimari scemi, resta da vedere se la sceneggiatura riuscirà ad elevare il tutto come sarebbe lecito aspettarsi.
LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto



SPIDER-MAN HOMECOMING (6 LUGLIO)
Il giorno in cui Spidey potrà finalmente dire “sono a casa!” sta finalmente arrivando, anche se il giovane ragnetto ha già dato ampiamente prova delle sue potenzialità nel colossal Marvel di quest’anno, quel Captain America: Civil Warche è stata il vero e proprio campione d’incassi del 2016.
Spiderman viene finalmente introdotto nel MCU (co-produzione Marvel/Sony), e nel film di Jon Watts potremo entrare nella sua quotidianità, tra la giovane Zia May, gli amici, la scuola e il suo dividersi tra la vita da studente brillante e la sua attività di vigilante.
Come se non bastasse, Robert Downey Jr./Iron Man sarà della partita, come anche Michael Keaton qui alle prese col suo terzo “superqualcosa” volante: dopo Batman e Birdman, ecco a voi l’Avvoltoio.
Si prevedono duelli aerei e precipitazioni di tizi in costume.

LIVELLO D’INTERESSE: Alto



THE WAR - IL PIANETA DELLE SCIMMIE (13 LUGLIO)
Iniziata benissimo e proseguita un po’ meh, la saga prequel de Il Pianeta delle Scimmie partita nel 2011 giunge al terzo capitolo, sperando che l’andirivieni di sceneggiatori riesca a garantire un qualche tipo di continuity.
Nel secondo film veniva mostrata un’umanità già allo stremo a causa del virus ALZ-113 che aveva potenziato sì le capacità cognitive delle scimmie, decimando allo stesso tempo il genere umano, favorendo così l’ascesa dei primati. Qui Matt Reeves, già regista del precedente, racconterà di una battaglia cruciale tra i due eserciti in lotta per il predominio, ma l’impressione è che si stia tirando troppo la corda senza dare una vera svolta alla vicenda per garantirsi gli incassi di un seguito dopo l’altro. Decidetevi.
Oltre a Andy Serkis e alla sua motion capture per Cesare, l’unico nome altisonante in campo è quello di Woody Harrelson. Non so davvero cosa aspettarmi.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio



VALERIAN E LA CITTÀ DEI MILLE PIANETI (21 LUGLIO)
I tempi in cui Luc Besson dettava legge nel panorama cinematografico europeo e mondiale sono passati da un pezzo, anche se lui non sembra ancora essersi arreso.
I vent’anni trascorsi dalla sua ultima space opera,
Il Quinto Elemento, Besson li ha passati tra Minimei, roba insipida tipo Angel-A, filmetti insulsi come Adèle e l’enigma del Faraone e Lucy, il quale gli ha dato la spinta di cui aveva bisogno per tornare ad alti livelli produttivi.
Valerian, tratto da un fumetto francese, è infatti il film più costoso mai prodotto dai transalpini, interpretato dal sempre più presente Dane DeHaan e dalla sempre più urticante Cara Delevingne, ormai ovunque.
Sarà l’anno della rivalsa? Non si sa, ma uno Sci-Fi europeo di Besson non me lo perdo in ogni caso.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio-Alto




IT (8 SETTEMBRE)
Tutti siamo più o meno affezionati al pagliaccio di Tim Curry che passava il suo tempo nelle fognature ad ammazzare bambini, ci è stato propinato più e più volte durante l’infanzia sulle varie reti TV e, pur con tutti i suoi limiti di miniserie televisiva, è entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo creando non pochi traumi infantili
Facendo leva su questo e sui moltissimi fan che chiedevano da anni una versione del film più aderente al romanzo ispiratore di King, arriva quest’anno il primo film dei due previsti per il cinema, con un nuovo pagliaccio abbastanza inquietante ma che personalmente mi dice poco.
Vedremo come si mette la prima parte con i bambini che, si sa, è comunque sempre stata la più interessante all’interno della vicenda. Galleggiano.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio




BLADE RUNNER 2049 (5 OTTOBRE)
Ryan Gosling sembra proiettato verso un futuro da divo hollywoodiano ricercato da chiunque.
Il suo futuro dipenderà però anche dall’approccio a questo sequel (e dal suo successo), dato che chi gioca col fuoco rischia sempre di scottarsi, ed il seguito di quello che è considerato il film di fantascienza più bello di sempre non può fare eccezione.
Torna Harrison Ford come Rick Deckard dopo 35 anni a sognare pecore elettriche da qualche parte, accompagnato da un cast di prima scelta, per la regia di Denis Villeneuve (si, ancora lui) e con Ridley Scott produttore esecutivo.
Riuscirà il nuovo cast a non intaccare il mito dell’originale rovinando quell’aura di magia creataglisi attorno nel tempo, anzi arricchendola con nuovi e validi elementi e proseguendo la sua corsa verso la leggenda?
Ci credo pochissimo, ma questo non significa che non possa venirne fuori comunque un buon film.

LIVELLO D’INTERESSE:
Medio-Alto   


THOR: RAGNAROK (25 OTTOBRE)
Ultimo film Marvel dell’anno, il terzo Thor dovrebbe riannodare tutte le trame dei capitoli precedenti, dare una conclusione alla sottotrama di Loki lasciata aperta in The Dark World e già che c’è spiegare quel bagnetto fan service scemo con tanto di visioni menasfiga del biondino asgardiano visto in Avengers: Age of Ultron, il tutto buttando sul piatto una lunga spiega sul dove cavolo fossero lui e Hulk durante la Civil War. Si perché in Ragnarok, tanto per non aver già abbastanza carne sul fuoco, Hulk avrà una parte fondamentale, in quanto saranno presenti diversi elementi della saga di Sakaar e di World War Hulk. I fan del fumetto sanno.
Cast stellare d’ordinanza, al quale si aggiungono quindi Mark Ruffalo, Cate Blanchett e Benedict Cumberbatch. Tanta, forse troppa roba, vedremo cosa ne salterà fuori, con tutto che il termine Ragnarok di per sé non promette niente di buono. Per gli asgardiani, almeno.

LIVELLO D’INTERESSE: Medio



JUSTICE LEAGUE (16 NOVEMBRE)
In questa lista non avete visto Wonder Woman (2 Giugno, aspettative zero), e sinceramente avete rischiato di non vedere neanche questo JUSTICE LEAGUE.
Dopo gli interminabili e mal gestiti eventi di
Batman V Superman, i più grandi eroi della Terra secondo DC si alleano per fronteggiare la minaccia di un essere cosmico e i suoi sgherri parademoni (si, è praticamente lo stesso soggetto di Avengers).
Lo inserisco per dovere di cronaca e nella speranza che gli sceneggiatori siano nel frattempo usciti da quella brutta tossicodipendenza da cazzate e nonsense che li ha afflitti finora.
Speranze pallide, lo so, ma una possibilità in più a questo Batman assassino del nuovo corso vorrei darla, nonostante del resto della cumpa non riesca comunque a fregarmene una mazza.

LIVELLO D’INTERESSE: Basso


STAR WARS EPISODIO VIII (15 DICEMBRE)
Siamo reduci da Rogue One e un anno fa la saga è ripartita col discusso (a me è piaciuto molto) Episodio VII: il mondo di Guerre Stellari sembra davvero tornato alla ribalta, ed in gran forma.
La trama di EPISODIO VIII è secretata e tenuta nel più stretto riserbo, manco fossero segreti di stato, ma si sa già che la storia si concentrerà sulle origini di Rey e sull’evoluzione della sua nemesi, Kylo Ren, a maggior ragione dopo l’orrore di cui si è macchiato nel precedente capitolo (pezzo di merda, non ti perdonerò mai!), senza dimenticare che dovrà dipanarsi il mistero attorno alla figura del Leader Supremo Snoke e alla fuga di Luke Skywalker.
Scrive e dirige il Rian Johnson di
Looper, scelta molto particolare, e il fatto che negli ultimi giorni si sia messo a difendere la trilogia prequel non depone proprio a suo favore, ma la Forza è potente in noi, e siamo pronti a tutto.
LIVELLO D’INTERESSE: Altissimo, cazzo, è Star Wars!


Allora signori, che ne dite delle anticipazioni, ce n’è di carne al fuoco eh?
Che anno cinematografico pensate ci troveremo ad affrontare? Io non vedo l’ora di buttarmici sinceramente, e nel bene e nel male so già che sarà spettacolare.
Buon anno a tutti, gente, glissate sul fatto che ho scritto remake e reboot quelle 20 volte di troppo e tanti auguri, ci si rilegge da queste parti!

ASSASSIN'S CREED - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Dispiace iniziare così, ma oggi facciamo in fretta che in fondo non c’è molto da dire, vista la qualità (si perdoni il termine) della pellicola e soprattutto quanta voglia abbia di dimenticarlo in fretta.
Anno nuovo, mood nuovo, potenziale nuova serie cinematografica che se Dio vuole morirà qui e ora, senza fare troppo rumore per nulla: segue recensione di ASSASSIN’S CREED, film inaffrontabile per chiunque non entri al cinema con un almeno un thermos di caffè pimpato col guaranà.




L’idea di realizzare un film sulla popolare saga videoludica gira ufficialmente dal 2011, e da che se n’è sentito parlare Michael Fassbender è sempre stato parte integrante del progetto, sia come produttore sia come protagonista, cosa che lasciava ben sperare.
Cinque anni dopo (da noi è arrivato in ritardo ma negli USA l’hanno visto a Dicembre) eccomi qua, intento a raccogliere i cocci della mia profonda delusione e a mangiarmi le mani per aver iniziato l’anno cinematografico con questa tavanata galattica.
Chiariamoci, la saga Ubisoft già si prestava molto bene di suo ad una trasposizione cinematografica, e infatti ne hanno presi praticamente tutti gli elementi fondanti: un tizio qualunque (qui un condannato a morte) viene rapito dalla Fondazione Abstergo per fargli rivivere, attraverso una macchina fantascientifica chiamata Animus, i ricordi di un suo antenato spagnolo vissuto ai tempi della Santa Inquisizione impressi geneticamente nel suo DNA.

Con pratica tecnosodomia inclusa nel prezzo (del biglietto)


Il suo antenato, Aguilar, faceva parte della Confraternita degli Assassini, e pare fosse l’ultimo a conoscenza dell’ubicazione della fantomatica Mela dell’Eden, manufatto antico che conterrebbe la chiave genetica per soffocare la violenza insita nell’essere umano, il ché di suo sarebbe già una bella stronzata, ma la vera tragedia di tutta l’operazione non sta nel suo spunto di base, quanto nella sua realizzazione globale-totale-reale-male.
Il punto è che non basta buttare sul piatto una tematica fantascientifica interessante, cioè basta e avanza per attirare in trappola la fanbase videoludica e i curiosi dell’ultimo minuto, non di certo per fare un buon film d’intrattenimento, a maggior ragione se nella mischia c’infili attori che si prendono mostruosamente sul serio, una sceneggiatura che arranca per trovare un motivo di esistere, una regìa da spot pubblicitario pettinatissimo e un montaggio da morti di sonno.



Il film di Justin Kurzel, già regista di Macbeth, è infatti un inno plateale alla narcolessia spinta, non diverte, non sorprende, non intrattiene nemmeno, se la gioca facile con l’idea di base del franchise ma la sfrutta talmente male che le uniche cose che possono restare impresse a fine agonìa sono qualche bel panorama e un paio di sboronate da parkour che si dimenticano un attimo dopo.
L’ambientazione spagnola (un cazzo di deserto e un paio di set rubati a Game of Thrones) è di una povertà rara, l’Abstergo è di un asettico che neanche un obitorio nuovo di zecca e la resa dell’Animus è quanto di più volutamente scenografico e allo stesso tempo inutile si sia mai visto, una roba che la sospensione dell’incredulità te la frantuma in un niente, quando sarebbe bastato sbattere un tizio su un lettino, attaccarlo a una macchina con un paio di led e ambientare il tutto in Toscana per tirare fuori lo scenario più epico di sempre: si, Assassin’s Creed II ha dimostrato che la serie funziona bene solo in Italia, e infatti.


Il flop fa effetto sia per i grossi nomi che c’hanno (ri)messo la faccia, da Fassbender a Marion Cotillard, da Jeremy Irons a Brendan Gleeson fino a Charlotte Rampling (!), sia perché nella storia del cinema recente nessuno aveva mai provato così seriamente a tirar fuori qualcosa di buono dall’ambito videoludico (pattume come Super Mario Bros., Doom, Tekken e Max Payne sono comunque di un altro brutto pianeta, intendiamoci) ma questa ennesima pisciata fuori dal vaso dall’oceano suona sempre più come l’ennesima riconferma che Hollywood non riesca ad interfacciarvisi in nessun modo, quando invece pare trovarsi così a suo agio con i comics.



Il migliore film mai tratto da un videogame un paio di palle quindi, forse come sforzo produttivo (che costerà a Fassbender qualcosa come 100 milioni di dollari di perdita) ma quanto a risultati siamo decisamente al di sotto di prodotti come Silent Hill e Prince of Persia, e si, è tutto dire, e a questo punto sulle sceneggiature già pronte dei prossimi Uncharted, Gears of War e Mass Effect non metterei proprio la mano sul fuoco.
Purtroppo ASSASSIN’S CREED non si salva dal duro impatto con la realtà, e tentando di atterrare almeno su un sicuro covone di fieno il film si getta nel vuoto con la grazia di un epilettico grave per sfracellarsi al suolo come il più strafatto dei trapezisti: più che un salto della fede un salto della quaglia, poteva essere amore, è stato un calesse dritto in faccia. Ah ma con la piroetta stilosa, eh?

"Tagliati le vene. Lo dico per te."


IN BREVE: Versione live-action del popolare videogame, personaggi bidimensionali, lentissimo e confusionario, noioso oltre il buonsenso e per nulla emozionante.
E’ già un floppone bello pesante e, salvo un paio di stunt e qualche bella inquadratura aerea, se lo merita tutto. Meglio tornare a giocare e saltare questa roba. Con fede.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:4 ½

NINTENDO SWITCH REVEALED – DUBBI E CONFERME (DI DUBBI E CONFERME)

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Avviso ai naviganti: questo non è un articolo dove vi sbatto in faccia specifiche tecniche alla brutto dio, o in cui sviscero giochi non ancora usciti in base a un trailer e a una descrizione ufficiale Nintendo o mi metto a contare i peli sul culo di Kimishima, questo è un bar, non è il posto, se ne occuperanno i 1200 siti che lo fanno per lavoro, non certo io.
Qui ci sono io in quanto giocatore, ci solo sensazioni, impressioni a caldo, aspettative deluse e piacevoli conferme del mio risveglio dolceamaro da (medio) fan Nintendo.
Sproloquiamone insieme.


Alle 5.00 di questa mattina abbiamo potuto finalmente togliere il velo del dubbio sulla nuova rivoluzionaria console Nintendo che vedrà la luce il 3 Marzo al modico prezzo di un rene 329 € per il mercato italiano.
Partiamo dal prezzo, che incredibilmente NON è la cosa peggiore della faccenda: mi aspettavo qualcosa di meno sinceramente, ma diciamolo, per il tipo di console che NINTENDO SWITCH intende essere è un prezzo accettabile, trecento euro e spicci non sono chissà quale cifra per una console del genere, tenendo conto che in genere li spendevo SIA per una fissa CHE per una portatile e che nel prossimo futuro l’unica altra novità sarà la fantomatica Scorpio di Xbox (la quale al momento è ancora soltanto una fumosa manciata di specifiche tecniche autoerotiche su carta, con tante promesse campate per aria e tutto ancora da dimostrare) a non meno di seicento bombe, si, il prezzo mi sembra abbastanza competitivo.


Si è venuto poi a sapere che lo schermo da 6,2″ avrà una risoluzione di 1280×720, cosa che non fa proprio schifo eh, e che sarà un LCD con schermo touch capacitivo (quindi la mia speranza di avere un altro titolo classic di Inazuma Eleven non è ancora del tutto defunta anche se ci credo pochissimo), il che apre diverse possibilità che andranno analizzate gioco per gioco, anche perché sono curioso di vedere come tradurranno la giocabilità di un titolo che utilizza il touch su portatile quando la console sarà bella incastonata nella sua dock station casalinga.
Sarà tutto da vedere, le potenzialità sono valide e l’idea, il concetto stesso di console ibrida è qualcosa che ai videogiocatori della mia generazione fa bagnare le mutande da sempre, qualcosa che abbiamo sognato da e per una vita e che finalmente sembra essere più che una realtà, ma in tutto questo marasma lussurioso di notizie e possibilità e futuri idilliaci c’è a mio avviso un problema non indifferente.



All’atto pratico IL problema è che, all’uscita di SWITCH, Sony e Microsoft a quel prezzo offrono macchine già rodate e dal parco titoli bello vasto (pieno di porting e remastered, ok, ma pure qui non credete), forti dei brand che mandano avanti da soli l’industria e di un attaccamento ai limiti del morboso da parte dell’utenza media, mentre le esclusive Nintendo (che finora hanno tenuto in piedi la baracca) sono bene o male sempre quelle, anche se negli anni hanno saputo reinventarsi molto bene in diverse occasioni, e titoli come Mario Galaxy 2, Zalda Skyward Sword e il recente Pokémon Sole/Luna sono lì per dimostrarlo.
Ma tolti i malati che si giocano tutti i Pokémonesistenti da sempre incuranti della ripetitività congenita dei vari titoli (eccomi, 18 anni di mostrilli tascabili e non sentirli) in quanti saranno disposti a investire su una console che a parità di prezzo ha un’offerta così minima all’uscita?
Eh si, perché sono anch’io della parrocchia che la grafica non è tutto, sono anch’io di quelli che preferiscono trama e giocabilità nei giochi, il punto è QUALI giochi?!



Verissimo che le terze parti si sono dette entusiaste del progetto SWITCH e che i cavalli di battaglia Nintendo saranno sempre lì a fare la voce grossa, ma in soldoni la console esce il 3 Marzo e, oltre a 1-2-Switch, un titolo party game erede spirituale di Wii Sports (ma che qui ci becchiamo a prezzo pieno, extra console) di cui non frega un cazzo neanche a quello che l’ha fatto, l’unico gioco disponibile al lancio pare sarà The Legend of Zelda: Breath of the Wild, benissimo direte voi, ma per quella mezza milionata di brutte persone ai quali Zelda non piace tipo, che ne so, al sottoscritto? Niente, s’attacca.
Ci si lamentava all’epoca del lancio di WiiUdella misera scelta dei titoli disponibili, ma Nintendo e la sua naturale predisposizione all’autolesionismo stavolta pare voglia andare fino in fondo: DUE cazzo di titoli al lancio, uno per carità attesissimo e bellissimo e leggendario e tutto quanto, ma due-titoli-al-lancio è qualcosa di incommentabile ed impensabile per una console che nei piani dovrà reggere tutta la baracca soppiantando il cadavere di WiiU e l'ancora glorioso 3DS.
Dice, ma di che ti preoccupi, ne usciranno altri subito dopo, no?



Beh,Mario Kart 8 Deluxe (porting da WiiU) sarà disponibile ad aprile, Splatoon 2 in estate e il nuovo Super Mario Odissey (nuovo sandbox stile Mario 64 che sembra effettivamente una meraviglia) non prima di Natale, in mezzo qualche robetta scaricabile dal Nintendo eShop e una nuova IP che al momento mi fa cadere le braccia, ARMS, mentre titoloni come Xenoblade Chronicles 2, Dragon Quest X e XI, il porting di Skyrim e un FIFA buttato lì marchiati con un generico e terrificante “in sviluppo”.
E’ questo che mi ha lasciato interdetto, non il prezzo, non le specifiche tecniche, ma la cosa nettamente più importante per una console e su cui proprio non si può soprassedere: la mancanza di titoli!
Che politica di merda è questa? Sappiamo fin troppo bene che il fiore all'occhiello di Nintendo è uno squilibrato marketing aziendale da roulette russa, abbiamo capito che la vostra strategia sia un puntare molto (tutto?) su Zelda ma non potete pretendere che lo facciano anche tutti i videogiocatori, perché sono sicuro che sarà una meraviglia per gli occhi e per il cuore, ma a me e a tanta parte del mondo Zelda non piace e non ci giocherà, e di conseguenza non spenderà un quarto di stipendio per avere la vostra nuova console per tenerla in mostra come un bel soprammobile, ferma e spenta, in attesa di qualcosa da buttarci dentro.



Cos’è, non potevate posticipare di un mese per farla uscire almeno con una valida alternativa come Mario Kart? Zelda doveva rientrare per forza nei costi e quindi o quello o quello e ciao? Avevate paura che passati due mesi nessuno si sarebbe ricordato di voi o semplicemente pensavate di rubare terreno a console concorrenti già in commercio o ad altre che quando usciranno saranno già di un’altra categoria?
Una risposta non l’avremo mai, temo.
La risposta dall’utenza sarà ovviamente la più importante, e malgrado sono certo che tutte le (poche) console della prima ondata spariranno in un botto, ma lo spettro della gestione WiiU che aleggia su NINTENDO SWITCH m’inquieta, e questo reveal non mi fa stare più tranquillo, ANZI.
La console di suo m’interessa molto, mi piace il concetto di gioco che vuole far passare, e non ho dubbi che la prenderò... ma di sicuro non sarà al Day One: tanto vale vedere come procederà la sua corsa dall’uscita fino a Natale, quanto il parco titoli si espanderà (poco, se consideriamo gli annunci) sperando forte che tutte le nostre aspettative non saranno amaramente deluse ancora una volta.

LIST TO DO: FARSI VIVI OGNI TANTO

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No, non sono morto. E si, sono indietro come una mina.
Non sono più andato al cinema da quella cagata certificata di Assassin's Creed e per me un mese senza mettere piede in sala è tipo una bestemmia. Non guardatemi così, mi vergogno come uno del PD.
Purtroppo non ce n'è stato il tempo nonostante i diversi film in programma e quanto ruotino le mie balle all'idea di averli persi.
Nei ritagli di tempo però sono riuscito non so come a mangiarmi via un po' di roba varia ed eventuale dal catalogo Netflix, appena riesco magari butto giù pure due righe.
Meglio sfruttare appieno tutte le possibilità adesso, che a Marzo esce Mass Effect e la mia vita sociale subirà un tracollo, 'mortacci sua.
Urge recupero violento.
Torno presto, promesso.

ARRIVAL - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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L’avevo detto che sarei tornato presto, e infatti ecco la prima rece della mia personalissima Operazione Recupero, che ok sono film ancora in sala e tutto quanto, ma stavolta per non riuscire a perdermene neanche uno dovrò fare i salti mortali.
Venendo a noi, com’è quindi questo ARRIVAL di Denis Villeneuve che tanto ho atteso? E’ finalmente fantascienza di livello? E soprattutto, di cosa parla davvero? Tranquilli, siamo in un ambiente protetto, [SPOILER FREE ZONE]



Intanto diciamo subito che, nonostante una fotografia e una regia splendide dal taglio moderno, ARRIVAL non è un film del nostro secolo, ma il degno erede di quel cinema di fantascienza classico tanto in voga negli anni 60/70 (ormai quasi estinto al giorno d’oggi) che s’impone per prima cosa di veicolare un messaggio che vada ben oltre la semplice rappresentazione visiva del fantastico.
Andando oltre le immagini, Denis Villeneuve (Prisoners, Sicario, il prossimo attesissimo Blade Runner 2049) sfrutta il concetto di primo contatto con una razza aliena come un meraviglioso sfondo sul quale impostare un doppio dialogo, quello visuale e concettuale tra Amy Adams/Jeremy Renner e i visitatori e, contemporaneamente, utilizza i codici e i temi tanto cari alla fantascienza per parlare del concetto di umanità, dell’essere umano con le sue debolezze e le sue controversie.
Messe da parte spade laser e battaglie tra caccia a gravità zero, la fantascienza in ARRIVAL torna infine a parlare di noi, è ancora una volta lo spauracchio che ti spinge a pensare, ad andare oltre e ad analizzare tramite metafore gli aspetti più particolari della vita.
Questo spunto nel film di Villeneuve è l’improvviso atterraggio simultaneo di dodici enormi navi spaziali in diversi e apparentemente casuali luoghi su tutto il pianeta.



Ma questo non è Independence Day ( e fortunatamente nemmeno il suo agghiaggiande seguito) e invece di attaccare il genere umano spazzandone via tre quarti in un niente, queste restano lì ferme, immobili, sospese a pochi metri da terra.
Ogni paese reagisce ovviamente in modo diverso: c’è chi prepara l’attacco preventivo, chi vede la cosa come un segno divino e chi, come gli americani, prepara sì le armi per un’eventuale attacco, ma si preoccupa di assoldare anche una linguista e un fisico teorico per provare a comunicare con gli “ospiti”.
Trovandosi di fronte ad un linguaggio non fonetico e non lineare, il compito si presenta più arduo del previsto.
Non ho la minima intenzione di spoilerare il colpo di scena (perché sì, c’è il colpo di scena) attorno al quale viene costruita così bene tutta la narrazione, per cui non mi spingerò oltre nel parlare della trama, tanto potete leggervela tranquillamente su Wikipedia quando volete, o magari ve l’ha già spoilerata il TG5 come al solito, non voglio responsabilità.



Ora, so bene di avere un problema con Amy Adams, ma non ci posso fare niente: esattamente come Jennifer Lawrence la trovo una delle attrici più sopravvalutate di questo decennio e, per quanto anche lei possa avere avuto i suoi bei momenti, personalmente in American Hustle, The Master, The Fighter, Man of Steel, Lei, Batman v Superman non ne ho trovato mezzo. Sarà che ancora non ho visto Animali Notturni? Magari ne riparleremo.
Fatto sta che alla nostra protagonista va riconosciuto l'impegno e in diversi momenti riesce a trasmetterti la giusta sensazione di angoscia, di spaesamento, e non sempre e solo strabuzzando gli occhi come suo solito: sta crescendo, è evidente.
Il resto del cast lavora per lei e lo fa bene, da Renner che come sempre è la faccia giusta e carica d’ironia su cui contare, a Forest Whitaker che dona sempre quintali di umanità ai suoi personaggi nonostante quella faccia da serial killer depresso, e lo adoriamo tutti per questo. Tutti a parte i fan di The Shield, s'intende.



E poi c’è quello della CIA, che come da contratto è ovviamente lo stronzo della situazione. Regolare.
Il cast funziona quindi, ma la voce grossa la fanno Regia e Fotografia (oltre che a una sceneggiatura solida e spiazzante) che hanno la capacità di cullarti e di non farti minimamente pesare due ore di campi lunghi, silenzi e attese, un connubio perfetto che avvolge, coinvolge e proietta completamente lo spettatore all’interno di una vicenda che non va assolutamente dove sarebbe anche lecito aspettarsi.
Lasciarsi investire dalla potenza visiva e concettuale di ARRIVAL è un’esperienza che va vissuta, anche col rischio calcolato di rimanere delusi dalla piega presa dagli eventi, senza paura della dilatazione di tempi, spazi e narrazione, perché ciò che realmente conta è il messaggio: il film di Denis Villeneuve è incredibilmente immersivo e affronta come nessun altro il tema della comunicazione, ma se non lo capite, se voi dalla fantascienza volete solo ed esclusivamente effetti speciali spaccamascella, battaglie spaziali, azione a tutto campo e battute imbecilli, beh, vi meritate francamente tutti i Battaglia per la Terra di questo mondo.



IN BREVE: Fantascienza che fa riflettere, Regia e Fotografia da Oscar, un buon cast e una storia di umanità che colpisce nell’animo, a patto che ne abbiate uno. Apologia sull’umanità e sulla comunicazione, astenersi amanti della fantascienza fracassona. Finalmente possiamo attendere Blade Runner 2049 a cuor sereno.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8 ½

XXX IL RITORNO DI XANDER CAGE - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Dopo Arrival, contro ogni previsione la mia personalissima Operazione Recupero sta procedendo a pieno regime, due film in due giorni, una media più che rispettabile.
Prossimi in lista (magari pure in settimana, chi lo sa) La La Land e Lego Batman – The Movie di cui mi dicono solo belle cose, ma non corriamo troppo e veniamo a noi che prima ci tocca XXX-IL RITORNO DI XANDER CAGE, e non fatemi fretta perché il mio cannemozze è carico e pronto, e l’altra cartuccia è Split.
Come se la sarà cavata Vincenzo Gasolio col fatto che ormai è diventato un deja vù vivente, evitando nel contempo di far notare alla genere umano tutto che sta riproponendo praticamente sempre lo stesso personaggio in tutti i film/franchise che tocca?
A mio discutibile giudizio, molto bene. [...]



Credo ci sia un termine per descrivere un film come XXX – IL RITORNO DI XANDER CAGE, e quel termine è essenzialmente fuori di testa.
XXX nasce nel 2002 quando il regista Rob Cohen, reduce dal successo di Fast & Furious, si prende il suo protagonista lanciato a mille e gli cuce addosso la sua personalissima Bond Story supertamarra, infilandoci quella gran faccia da drittone di Samuel L. Jackson, un’Asia Argento sexy quanto un tornio verticale e un sacco di gente da far fuori malissimo nei modi più assurdi.
Flash forward di 15 anni, plus un dimenticabile seguito all’attivo con un Diesel in meno e un Ice Cube in più, la saga torna in mano all’unico, iconico protagonista, specialista in sport estremi e cafonate fuori parametro al quale l’agenzia governativa (che ora porta il suo nome) sarà costretta a chiedere di nuovo aiuto per uscire da un’ennesima situazione di merda globalepotenzialmente devastante per l’umanità.



Il fatto è che qualcuno ha preso questa mania dei droni un po’ troppo sul serio e sta facendo precipitare satelliti (si, satelliti) un po’ dappertutto a comando, causando morti, disastri e casini con la ricezione di Sky che non ti dico.
Viene rubato il solito ordignodafinedelmondo™ e tocca mandare il migliore dei peggiori per recuperarlo
, ma un solo agente non può bastare stavolta, per cui al nostro Tripla X non resta altro che…reclutare.
L’incipit di suo varrebbe già una mezza carrellata di Razzie Award per direttissima, mi rendo conto, le leggi della fisica, della gravità e del buonsenso vanno comodamente a puttane ogni due minuti, metà film sembra un rave zozzo anni ’90 e le sboronate sono oltre al livello di guardia, è tutto eccessivo, tutto assurdo, tutto cafonizzato e ignorante e, porca miseria, estremamente divertente.



Nell’universo parallelo acrobatico e impossibile dei film d’azione (che da che mondo è mondo si dividono in due macrosezioni: da una parte c’è Heat - La Sfida e dall’altra tutto il resto) succede tutto e il contrario di tutto, e XXX – IL RITORNO DI XANDER CAGE rende benissimo questo concetto: gentaglia da galera che si fa eroe prima per dovere e poi per scelta, il nemico che si è combattuto fino a cinque secondi prima che diventa il tuo miglior alleato e così via, e il bello è che nell’economia della storia va incredibilmente bene così.
Vin Diesel, tra una sciata su terra e una corsa in moto sulle onde, mette fondamentalmente in piedi i suoi Mercenaridi seconda fascia, i suoi Avengerstamarri, una squadra di gente assurda da portare prevedibilmente avanti negli anni con i suoi n seguiti, e giustamente non ce n’è più per nessuno.



Tra le varie macchiette restano impressi la cecchina infallibile (Ruby Rose), quel mito vivente di Donnie Yen che nel corpo a corpo spacca il culo ai passeri anche solo con lo spostamento d’aria, quel gigione incredibile di Samuel L. Jackson impegnato a fare il Nick Fury farlocco (il cameo iniziale con Neymar è da lacrime agli occhi), ma anche tutta la carrellata di facce assurde di contorno è lì per un motivo, anche solo semplicemente per strappare una risata o per crepare nel modo più spettacolare possibile. 
Regia e montaggio sono estremamente funzionali al tutto (D. J. Caruso da Disturbia e Sono il Numero Quattro ne ha fatta di strada) ma gli stunt sono davvero a livello d’esaltazione pura, la vera anima della festa: le sequenze action sono fluide ed enormi, giocano sempre su più livelli e non danno un attimo di respiro a nessuno, personaggi e spettatori.


Tensione percepita zero, e non frega niente a nessuno perché non è quello lo scopo dell’intero circo messo in piedi, non è la sua funzione, e quando nasci senz’altre pretese se non l’intrattenimento fine a se stesso va pure bene così, senti.
Mi sembra di base una scelta discutibile l’andare a tirare in ballo concetti come coerenza e trama parlando di un film (un sottogenere mica più tanto “sotto”, ormai) che richiede di spegnere il cervello per poter essere goduto appieno, ma preferisco sinceramente una pellicola ignorante dichiarata fin da subito piuttosto che una brutta perché basata su presupposti d’eccellenza e poi scritta male e diretta peggio, una che si prenda molto/troppo/totalmente sul serio per poi franare al suolo come l’ultimo degli stronzi.





XXX – IL RITORNO DI XANDER CAGE è una cazzata fierissima di esserlo, esagerata, sborona e ignorante nel midollo, ed è lì a ricordartelo ogni cinque secondi con una battuta superzarra, una scazzottata in mezzo al traffico e un motoscafo tirato in faccia.
Intrattiene, diverte a grana grossa e fa volare due ore scarse in un niente, portando meritatamente a casa la pagnotta.
Persa ormai la speranza di realizzare un altro Riddick decente, a Vin Diesel riesce il miracolo di resuscitare un’altra saga nata morta ancora più assurda e sbracata di Fast & Furious. E non era facile.
Perché l’unione fa la forza, sempre e comunque, e lui lo sa fin troppo bene.



IN BREVE: Action a velocità smodata, ignorante convinto e geneticamente cafone. Una montagna russa di follia, battutacce, robe impossibili e divertimento a manetta. Per chi sa spegnere il cervello a comando è un must see. Non c’avrei scommesso un’eurorupia.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7 ½

LA LA LAND - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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L’omai leggendaria Operazione Recupero procede con rinnovato vigore, voi non lo sapete ma qui si sta macinando film-to-film in maniera assurda, e il problema resta principalmente uno: trovare il tempo per scrivere di tutto.
Ci sono già quattro serie Netflix in arretrato, più due robacce con fantasmi femministi e squadre suicide che per dovere di cronaca mi sono autoimposto di vedere e valutare, ma la precedenza ce l’hanno sempre i film in sala, e proprio per questo oggi avrei dovuto parlare di Split.
Solo che SHAMALAYAAAAAN! quanto vuoi, ma poi ho visto LA LA LAND e #ciaonebuoni propositi di continuità, perché dopo averlo visto non ho resistito al bisogno di scriverne.
Ah, a scanso di equivoci, non stiamo parlando di un bel film, ma solo perché LA LA LAND è un Capolavoro.



Il problema è che in questo paese di segaioli impenitenti e di povere frustrate LA LA LAND lo vedranno in pochi, troppo pochi: sia perché le masse urlanti sono in coda da giorni per non perdersi quell’inno al soft porno di 50 Sfumature di Stocazzo, sia perché in Italia i musical (con tutte le sue derivazioni, come in questo caso) non attecchiscono. Cioè non quelli con attori in carne ed ossa, che quando la Disney tira fuori l’ennesimo carosello tipo Frozen per triturarci i coglioni a morte con le sue canzoncine insulse, quello va bene, tutti al cinema mi raccomando!
Problemi mentali della penisola a parte, il punto è che snobbandolo state facendo un torto a voi stessi, un torto grosso come il mondo del cinema, perché la pellicola di Damien Chazelle è Cinema allo stato più puro, un inno universale alla vita e all’amore in tutti i suoi aspetti, ed è in definitiva un film assolutamente perfetto.
E no, non sto scherzando.




LA LA LAND è la storia di Mia e Sebastian, aspirante attrice lei e pianista squattrinato lui, e della Los Angeles che li vede sognare, disperarsi, incontrarsi, uno palcoscenico magnifico e crudele popolato di sogni irrealizzati davanti al quale prende vita una delle più belle storie d’amore che il cinema abbia mai avuto il coraggio di raccontare senza cadere in idealismi accomodanti, senza filtri buonisti e senza sentirsi in dovere di portare la storia dove lo spettatore vorrebbe che andasse.
Il film di Damien Chazelle è un sogno ad occhi aperti che trascina irrimediabilmente lo spettatore in una vicenda dolceamara che parte con un numero musicale enorme, un lunghissimo e incredibile piano sequenza all'interno di un ingorgo stradale, per poi puntare l’obiettivo sui suoi protagonisti: Emma Stone e Ryan Gosling sono un autentico spettacolo, lei ormai temprata da un curriculum importante (Iñárritu, Crowe, due volte Woody Allen) è finalmente maturata vantando una bravura interpretativa eccezionale, lui che sdogana in maniera definitiva il suo talento estremamente duttile e regala quella che forse è la sua interpretazione più iconica e indimenticabile.




Grazie a loro, al loro prodigioso affiatamento, il film prende il volo e senza il minimo intoppo o fase di stanca racconta in un’iperbole le quattro stagioni dell’amore, con la sua dolcezza e il suo pessimismo, il suo sguardo sognante ma impregnato da un’amarezza di fondo che non si fa mai ineluttabile, accendendo un sorriso poco prima di scioglierlo in una lacrima e viceversa, in un turbinio di emozioni gestito in maniera magistrale.
D’altra parte è questa la vera anima della pellicola, perché LA LA LAND è un film che, come la vita e tutto quello che può portare a sorpresa lungo il suo percorso, vive di contrasti:





la regia di Chazelle, incredibilmente ispirata, coniuga in modo perfetto classicismo e innovazione, adattando il linguaggio del musical a gusti e percezioni dello spettatore di oggi grazie alla sua visione unica; la fotografia pastellata e sgargiante è un continuo rimbalzo cromatico studiato a tavolino per accompagnare narrazione e fruizione emotiva, sempre funzionale, mai eccessiva; e ancora scenografie costantemente in bilico tra dura realtà e potenza onirica, una sceneggiatura di ferro che sa dialogare col cuore dello spettatore con immagini e musica in perfetto equilibrio, le coreografie semplici e di grande impatto che dettano i tempi di una storia meravigliosa in tutti i suoi frangenti, dal più galvanizzante a quello più drasticamente malinconico.



La colonna sonora è ovviamente l’ennesima perla che questo capolavoro moderno ha da offrire (Recuperatela.Subito.) e quale genere musicale vive più degli altri di contrasti, in continuo mutamento, in grado di oscillare come un’emozione bellissima e dolorosa senza mai perdersi nell’una o nell’altra, se non il jazz?
E’ il jazz travolgente e dal respiro immenso che diviene strumento di narrazione, simbolismo perfetto della vita come continua improvvisazione e rinnovamento, con esperienze ed evoluzioni scandite da un ritmo sempre nuovo ad ogni passaggio, ed è sempre il jazz dettare i tempi delle vite di Mia e Sebastian e ad accompagnarli in quel meraviglioso viaggio emozionale che cambierà la loro vita per sempre.




LA LA LAND non è musical come l’abbiamo sempre inteso, ne rielabora sapientemente i punti di forza e le meccaniche ma è una creatura nuova che ama il cinema, utilizza in maniera magistrale il linguaggio cinematografico e parla d’amore e di sogni, di aspirazioni e delle comuni difficoltà che la vita può mettere in gioco quando due anime s’incontrano, e lo fa in maniera diretta, senza patetismi o forzature.
E’ un film che infonde gioia di vivere, che ti s’infila nel cuore e non ti molla più, obbligandoti a portarlo con te anche quando il cuore sembra volertelo strappare durante quell’ultima, sognante esecuzione.
Perché la vita, come il jazz, è in continuo mutamento, e chi siamo noi per poterla fermare?




IN BREVE: Film musicale sulla vita e sull’amore realizzato in maniera unica. Interpreti perfetti, regia e fotografia ispirate, colonna sonora meravigliosa, emozionante, sognante e disilluso.
Autentico Capolavoro, se farà incetta di Oscar sarà solo giusto.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:10

SPLIT - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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E’ stato debilitante, ma ce l’abbiamo fatta.
L’
Operazione Recupero termina ufficialmente qui e oggi con la recensione di SPLIT, ed era pure ora, che per recuperare tutto (o quasi, spiacente Allied) mi sono dovuto tipo sdoppiare in quattro come Michael Keaton, solo che poi è arrivato sto tizio con 23 personalità e niente, umiliato, partita vinta a tavolino.
Per cui bando alle ciance, urliamo forte SHAMALAYAAAAN! e vediamo se almeno stavolta il regista più sopravvalutato del mondo l’ha messa nel sette.


Come avrete capito non sono proprio quello che si definirebbe un estimatore di M. Night Shyamalan, non ho apprezzato
Il Sesto Senso, The Village o Sings come invece ha fatto, ehm, la metà del mondo civilizzato, e non tanto per la messa in scena in sé o per il suo tocco autoriale (notevole, in alcuni casi più che in altri) ma proprio a causa di quella che viene consideratala sua caratteristica più peculiare: il cosiddetto Shyamalan Twist.
Non mi capacito di quel che possa sorprendere la suddetta metà del mondo civilizzato, ma la prevedibilità dei suoi colpi di scena è sempre stata per me snervante, a metà film capivi dove volesse andare a parare e avere ancora un’ora davanti per arrivare a un sorpresone che sorpresone non lo era più, a maggior ragione consci del fatto che oltre a quello non c’era altro, beh, mi ha sempre innervosito oltre misura.
L’unico film di SHAMALAYAAAAN! che considero davvero ben fatto è
Unbreakable, e qui veniamo a noi perché SPLIT, pur non essendo chissà quale filmone rivoluzionario e portandosi dietro diversi problemi non da poco, è un film onesto che si lascia vedere dall’inizio alla fine senza mai annoiare, e se lo fa bisogna ringraziare soprattutto James McAvoy.



Il film poggia tutto sulle sue spalle palestrate ma soprattutto sulla sua ecletticità, sulla capacità di cambiare registro da una personalità all’altra, passando dall’artista tormentato alla signora impettita al ragazzino timido al maniaco germofobico in un niente, una prestazione impressionante e molto intensa che da sola varrebbe il film e che conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che il pazzo maniaco gli esce sempre da dio.
Il nostro Kevin, giovane affetto da disturbo dissociativo della personalità, rapisce tre studentesse a suo dire impure per tenerle segregate in attesa di essere “sacrificate per uno scopo più grande”.
Non tutte le 23 personalità di Kevin sono d’accordo con questo gesto, all’interno della sua mente è in atto una guerra perché ognuna di esse possa venire “alla luce” e le tre ragazze dovranno sfruttare questa debolezza per trovare una possibilità di salvezza.



Ambientato fondamentalmente un quattro stanze e in un paio di corridoi asfittici, SPLIT gioca bene la carta di un incipit molto semplice e disturbante con un buon crescendo in atmosfera e qualche buon momento di tensione, arrivando ad una parte finale parecchio fuori contesto ma gestita meglio di quanto ci si possa aspettare, il film infatti riesce a cambiare pesantemente registro (come il suo protagonista) senza perdersi lo spettatore per strada e spalancando una porta ad un seguito che ora, lo ammetto, sono molto curioso di vedere.
Tratto molto liberamente dalla storia vera di Billy Milligan (inquietante a dir poco, recuperatela) il film di Shyamalan è notevole per diversi aspetti quanto debole in altri, primo su tutti, nonostante le atmosfere opprimenti col quale gioca così bene, il fatto che in fin troppe occasioni il buon Kevin ti diventi addirittura simpatico: i cambi repentini di vocette da un personaggio all’altro, oltre al fatto che la personalità da Bimbo Gigi sia per sua natura decisamente scema e ridicola, azzoppano quella tensione che avrebbe dovuto essere la personalità dominante del film.



Altra figura interessante ma sfruttata male (leggi: fa la figura dell’idiota, e lo capisci da subito) è quella dell’anziana psicologa che, per quanto riesca a rendersi utile quando serve, passa l’intero film a sospettare del suo assistito senza però fare nulla di concreto per molto, troppo tempo, il gioco di luci ed ombre tra lei e le personalità di Kevin è interessante ma nell’economia della storia risulta perennemente in stallo, quasi fosse mero riempitivo per il minutaggio o l’ennesima vetrina per le capacità di McAvoy.
Questi rimangono sicuramente i difetti più evidenti di un film che avrebbe potuto essere molto più angosciante, e in questo il doppiaggio italiano c’ha messo molto del suo, ma nonostante tutto non mi sento di bocciare SPLIT: sarà per la sua natura da film a basso budget gestito bene, sarà per la bravura di McAvoy (sempre adorato sto’ ragazzo)


sarà perché alla fine molti nodi e dettagli tornano al pettine ridisegnando un quadro studiato molto bene nella sua interezza, sarà che l’ultima scena prima dei titoli mi ha galvanizzato al pari di un Nick Fury che alla fine di Iron Man ti butta lì un’Iniziativa Vendicatoriprecipitandoti la mascella a terra, ma personalmente non posso dire di non averlo apprezzato.
Shyamalan continua a sembrarmi un regista ampiamente sopravvalutato, SPLIT non sarà il suo miglior film (quello esiste già, e non è
Il Sesto Senso) ma di sicuro sa intrattenere, e nonostante una certa ripetitività nella parte centrale le due ore di durata scorrono bene, quella sterzata decisa nel finale spiazza il giusto e quella ciliegina nostalgica all’ultimo è una dichiarazione d’amore e d’intenti che ci sta da dio.
Ti darò un’altra possibilità, Ciccio, vedi di non tirarmi fuori un’altra minchiata alla The Village, grazie.



IN BREVE: Thriller psicologico e d’atmosfera diretto molto bene, sceneggiatura semplice ma solida, un protagonista eccezionalmente in parte/i e una fase conclusiva decisamente spiazzante. Poteva essere molto più angosciante e alcuni aspetti potevano essere gestiti meglio, ma in definitiva un buon film. Chicca finale da spettacolo puro (per chi può apprezzare) 
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:7


LEGO BATMAN IL FILM - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Quando ormai tre anni fa uscì il magnifico The Lego Movie, assurdo concentrato di trovate geniali e surreali a ciclo continuo, sempre giocato sul filo di una narrazione metacinematografica e maledettamente divertente,  fu semplicemente amore a prima vista.
Pochi giorni fa è arrivato nelle sale quello che potremmo considerare il suo primo spin-off, interamente dedicato al personaggio di Batman che nel film di Lord e Miller era decisamente uno degli elementi più riusciti, e LEGO BATMAN – IL FILM fa le cose in grande portandosi dietro quindi tutto il suo circo di nemici iconici, partner minorenni e superamici assortiti…cosa mai potrebbe andare storto?




Quella di un Lego Batman, per quanto sia la prima sortita sul grande schermo, non è certo un’idea nuova: sono anni che nelle lande desolanti del digitale terrestre e sui canali Sky da numeri a quattro cifre periodiche vengono trasmessi a rotazione perpetua film d’animazione e serie tv in computer grafica sull’argomento, prodotti televisivi di qualità medio bambinesca creati al solo scopo di pubblicizzare e vendere i set e le miniature più disparate (non c’è niente di male in questo, siamo tutti cresciuti con Masters/Transformers/G.I.Joe/Tartarughe Ninja, il concetto è quello).
Il fatto è che l’approccio su più livelli di lettura adottato da The Lego Movie non era più percorribile, non senza che tutta l’operazione sapesse di minestra riscaldata al minuto zero, per cui LEGO BATMAN – IL FILM avrebbe dovuto giocarsi le sue carte come un qualunque film d’animazione contemporaneo puntando su una storia solida, una computer grafica all’avanguardia, un background multimediale riconoscibilissimo, spingendo al massimo la comicità surreale del primo film e, ovviamente, giocando forte su una marea di possibili riferimenti e citazioni dell’universo di Batman.



Sulla carta l’idea non poteva fallire, ma col passare dei minuti ci si rende conto che il giochetto non funziona più, o almeno non come avrebbe dovuto.
LEGO BATMAN – IL FILM parte da un buon presupposto, ossia far luce sulla vita solitaria e sulla personalità misantropa del protagonista, una solitudine autoimposta, il rigetto totale dell’idea di nucleo familiare ovviamente dovuto alla perdita dei genitori, perdita che l’avrebbe portato a diventare l’eroe/vigilante che noi tutti amiamo.
I problemi nascono da qui, perché questa tematica trova sì una risoluzione nel finale (non è uno spoiler, la locandina te lo spiattella in faccia da subito), ma lo fa senza un'evoluzione vera e propria e all'interno di un contesto talmente assurdo da privarla della sua importanza, riducendola a mero pretesto per collegare tra loro una serie infinita di gag senza soluzione di continuità.



Gag che, di contro, sono talmente semplici ed elementari (leggi: scuola dell’obbligo) da invalidare nel contempo qualunque pretesa di un livello di lettura più a portata di adulto, cosa che invece The Lego Movie sapeva fare fin troppo bene.
Le uniche volte in cui LEGO BATMAN – IL FILM riesce a strapparti grosse risate quando la butta sul metareferenziale (i titoli di testa) o quando ti sbatte in faccia una citazione dietro l’altra a tradimento pescando da 80 anni di vita editoriale e cinematografica, facendo felice in un colpo solo il fan di vecchia data e lo spettatore medio che, va detto, quando c’è Batman al cinema o in tv non si perde una puntata.
E’ un meraviglioso turbinio di costumi assurdi, Batmobili storiche, spray anti-squalo, copertine di graphic novel, nemici di serie Z, gente pescata da fumetti, film, cartoni animati e altro, un concentrato di nerditudine esplosivo talmente denso da sovraccaricare anche l’occhio più attento e preparato.



Il punto è questo: come collage di citazioni multimediali nell’ambito “Batman” è una roba mai vista, esagerata, galvanizzante, ma tirando le somme ti rendi conto che un collage di citazioni NON E’ un film.
Da qui, per compensare, si parte senza ritorno per le lande dell’accumulo sfrenato: gag sull’eterna rivalità con Superman, sul rapporto assurdo con Joker, sequenze d’azione piene di personaggi iconici ma prive di mordente, mille nuovi veicoli utili a piazzare quei 150 nuovi set Lego in arrivo, l’ingresso in campo dei mostri sacri della cinematografia Warner buttati nel calderone per far numero e volume, e così facendo il film s’incarta su se stesso tornando alla sua dimensione di film televisivo, certo costosissimo e con diverse marce in più, ma pur sempre prodotto di seconda fascia, pieno di potenzialità e carico di “mi spiace, sarà per la prossima volta”.



La realizzazione tecnica è ovviamente di ottimo livello, niente da dire, ma non distoglie l’attenzione da una sceneggiatura zoppicante (dovrebbe essere il contrario, eventualmente) che arranca a battutine, né dai lunghi momenti di stanca nel secondo e terzo atto, né dal fatto che tutto il baraccone colorato sia l’apoteosi del fan service.
Discorso doppiaggio: ottimo il Batman di Claudio Santamaria, sempre in parte, abbastanza anonimo il Joker di Marco Guadagno, a dir poco terrificante la Batgirl di Geppi Gucciari, l’ennesima brava comica italiana buttata a forza in un film d’animazione “perché fa ridere”; dovrò riguardarmelo in originale, almeno potrò risparmiarmi i dialetti (e la voglia di strapparmi le orecchie).
A mio avviso, nonostante le buone premesse LEGO BATMAN – IL FILM rimane una pellicola scostante e noiosetta, piena di gag infantili e ottime citazioni a nastro, che nel tentativo di far divertire tutti riesce nella difficile impresa di non accontentare del tutto né giovanissimi né adulti, lasciando tra le righe il rammarico di una bella occasione persa.



Poi ovviamente, come ogni film sul Cavaliere Oscuro di Gotham, sta comunque guadagnando fantastiliardi, e va bè, probabilmente sono solo io ad essere spaventosamente fuori target.

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 6 ½


LOGAN - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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…eeeee niente, primo lungo stop dopo un febbraio più prolifico di un coniglio, me ne scuso, purtroppo quando il lavoro e i mille impegni fanno la voce grossa si deve tornare coi piedi per terra e rendersi conto che non sono le rece a pagare bollette e spese, e quindi precedenza alla triste vita lavorativa. Oh, succede.
Comunque, dopo due settimane riesco finalmente a parlare di questo maledetto LOGAN – THE WOLVERINE, per il momento ultimo film della parrocchia mutante Fox/Marvel e apparentemente in via definitiva ultimo film sul nano artigliato canadese
  (che, ricordiamolo, non è né nano né tantomeno canadese) col volto del belloccio picchiatore Hugh Jackman.


Diciamolo subito, senza troppi giri di parole: LOGAN è un gran bel film, ed è sia il film di Wolverine che meritavamo, sia quello di cui avevamo bisogno adesso.
Lo meritavamo perché da fan seguiamo i suoi artigli placcati in adamantio da diciassette anni (
X-Men, 2000) e tra un’iterazione e l’altra l’abbiamo visto sempre protagonista, anche quando non sarebbe dovuto esserlo, anche quando doveva fare squadra e tutto quel Wolverinecentrismo congenito rubava troppo spazio al resto, un po’ per “colpa” degli sceneggiatori, un po’ proprio a causa dell’indiscutibile carisma di personaggio e interprete che sulla scena si mangiavano sempre tutto e tutti.
Questo LOGAN di James Mangold s'inserisce in qualche modo nell'incasinatissima continuity mutante, distaccandosene però in maniera marcata per dare un ultimo, bellissimo e doveroso saluto a colui che da completo debuttante su Wolverine c’ha costruito una carriera, realizzando un’opera matura e disincantata, anni luce dalla plasticosità di un
X-Men Apocalypseo dalla pezzenteria di un Wolverine – L’immortale (colpa di Mangold, ricordiamolo).



Che succede nel 2029? Succede che i mutanti sono sull’orlo dell’estinzione, che gli X-Men non esistono più, che il fattore rigenerante di Logan ha rallentato in maniera impietosa e il nostro (anti)eroe preferito si è ritirato a vita privata: fa l’autista di limousine per campare, vive in pieno deserto in un complesso fatiscente in compagnia di Calibano e insieme si occupano di Xavier, novantenne e ciclicamente preda di gravi crisi psichiche.
E’ un mondo morto e desolante quello che fa da sfondo alle vicende di LOGAN, un clima di perenne incertezza e declino in cui è facile arrendersi e cedere allo sconforto regna su ogni cosa, e l’unica scintilla in grado di riaccendere le speranze per un futuro risiede nella piccola Laura, prima mutante nata negli ultimi venticinque anni, giovane selvaggia bisognosa di protezione (ma fino a un certo punto) e di una guida per raggiungere la fantomatica Eden.
 

Cinematograficamente debitore da I Figli degli Uomini e The Road, contaminato (fumettisticamente parlando) tanto da Old Man Logan quanto da Messiah Complex, il film di James Mangold è ciò che di più lontano possa esserci dal concetto di cinecomic moderno: violento, disperato, brutale, LOGAN è un road movie che si fa western postapocalittico in un mondo che per assurdo continua a girare, ma nel quale i mutanti sono una parentesi ormai fuori dal tempo.
Nel viaggio di Logan, Laura e del vecchio Xavier è racchiusa tutta l’umanità di un difficile rapporto padre-figlio tra due personaggi che sono cresciuti insieme in quasi vent’anni di cinema, c’è la fragilità di due uomini vecchi e stanchi che combattono contro il tempo e vengono a patti con un passato devastante scandito da battaglie, da compromessi, dal dolore della perdita.
Ma vi è anche quella scintilla che Laura fa scoccare e cambia le carte in tavola, c’è l’innato amore di un padre per un figlio che percorre tre generazioni, e c’è la speranza, il desiderio di fare la differenza, di andare oltre in nome di un futuro migliore per chi potrà viverlo.



Hugh Jackman ci regala il suo Wolverine più disilluso e disperato, ma paradossalmente anche il più concreto e umano si sia mai visto: le cicatrici che non si rimarginano più, la stanchezza della vita che traspare nel suo sguardo ferito, la violenza ferina tanto a lungo repressa (sullo schermo) che esplode in maniera così brutale, i rimpianti che pesano sull’anima del mutante canadese sono palpabili, e l’interpretazione drammatica di Jackman raggiunge qui il suo malinconico apice.
Accanto a lui, Patrick Stewart dà una prova mastodontica col suo Xavier, drammatica figura spezzata nel corpo e nella mente, concludendo così il suo ciclo mutante in modo grandioso, e la giovane Dafne Keen è una bella rivelazione, anche se difficilmente la rivedremo nei panni di X-23.
Tutto perfetto quindi? Non proprio, ad essere onesti. L’anima da road movie paga lo scotto di due villain poco convincenti, la soluzione narrativa per far affrontare a Logan gli orrori del suo passato (nella fattispecie la personificazione del suo senso di colpa) è decisamente banale, e non ultimo quel finale, per quanto toccante, è decisamente straniante: invece di affondare gli artigli fino in fondo Mangold preferisce giocarsela facile, chiudendo questo ciclo in maniera quasi sbrigativa con una risoluzione fin troppo prevedibile.



Nonostante tutto, però, il film regge proprio grazie alla sua anima da film on the road e rimane il migliore mai realizzato sul mutante artigliato, se non addirittura il punto più alto raggiunto da tutta la baracca mutante.
Esaltante, dolceamaro, commovente, LOGAN è un bellissimo pugno nello stomaco, una pellicola violenta e malinconica che si ritaglia un posto tutto suo nel cuore degli appassionati grazie a un’ottima messa in scena, a una storia ben scritta e ad un cast eccezionalmente ispirato, Jackman e Stewart su tutti.
E nell'attesa (e nella flebile speranza) che il multiverso Fox/Marvel/Sony ci farà un giorno reincontrare, grazie di tutto Hugh, è stato un piacere.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8 ½


LA BELLA E LA BESTIA - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Recensione a stretto giro, dopo quella di Logan, un po’ perché mancando da tanto volevo recuperare in qualche modo il tempo perduto, ma soprattutto perché…domani esce Mass Effect Andromeda, e se tutto va come deve andare probabilmente entrerò in modalità eremitica, e #ciaomondo.
Pochi giorni fa è uscito LA BELLA E LA BESTIA, remake in carne, ossa e CGI di uno dei Classici più celebri e riusciti di casa Disney, realizzato dalla stessa casa di Topolino e facente parte del progetto Live-Action come i precedenti
Cenerentola e Il Libro della Giungla, e me lo sono visto con tutte le buone intenzioni di questo mondo dato che il film d’animazione del 1991 rimane tutt’oggi un signor film.
Ma allora…cos’è questa brutta sensazione di gelo?



Il progetto nasce con l’intenzione di 1) farci ovviamente una barca di soldi, 2) ridare una mano di vernice alla propria produzione d’annata, 3) fare del celodurismo violento verso tutte quelle produzioni che tentano invano di scimmiottare i
  Classici Disney con filmetti di terz’ordine dalle confuse pretese artistiche.
Ora, a me starebbe pure bene se questo potesse risparmiarci porcherie come quel
La Bella e La Bestia di tre anni fa con Vincent Cassel, non fosse che la Disney, nel voler dimostrare al mondo di essere in grado di copiare se stessa meglio di chiunque altro, riesce a tirarene fuori un film più freddo del culo di una strega.
LA BELLA E LA BESTIA è talmente sbagliato sotto tanti di quegli aspetti che si fa fatica a contarli, non perderò tempo quindi a raccontarvi una trama che avete ormai tatuata nel DNA, perché se avete visto il Classico del 1991 non serve che sappiate altro: il film di Bill Condon è una maledetta fotocopia senz’anima.


L’occhio è sicuramente appagato dal lavoro certosino di scenografi e costumisti, che riescono a riprodurre ai limiti del maniacale le ambientazioni del film d’animazione originale per far contenti i fan d’annata, ma sono le poche cose che si salvano da una pellicola finta fino all’esasperazione.
Il regista s’impegna come un pazzo per riprodurne ogni singola inquadratura, tanto da dimenticarsi d’infilarci dentro qualcosa che valga la pena vedere, aggrappandosi alla speranza che la magia del capostipite possa essere riprodotta semplicemente scopiazzando tutto  alla brutto dio, trasformando la sua pellicola fantasy per nostalgici in una gara di cosplay di livello EPIC.
Ma prima di essere un film LA BELLA E LA BESTIA è un musical, e in quanto tale bisogna considerare il suo comparto scenico, i suoi numeri musicali, le canzoni stesse, il modo in cui vengono inserite nell’economia della storia e quanto ne portano avanti la narrazione, vien quindi da sé che il giudizio in questione deve tenere presente della localizzazione del tutto: come succedeva per l’originale musiche e testi sono stati infatti tradotti e adattati in italiano con risultati piuttosto altalenanti.


Se i cantanti nostrani se la cavano decisamente bene (le voci canore di Belle, Lumière e Gaston su tutti) il lavoro sulle traduzioni di alcuni brani è zoppicante: e si, prima che lo chiediate, nonostante ci fosse una colonna sonora bell’e pronta dal ’91 da utilizzare, qualcuno ha avuto la bella pensata di ritradurre alcuni brani da zero, qualcuno senza alcuna conoscenza del concetto di metrica, a quanto pare. Praticamente un doppio stupro, uno per l’udito e l’altro per i ricordi. Il coinvolgimento di Vasco Rossi a questo punto è più che un sospetto.

No comment per le tre nuove (insulse) canzoni scritte appositamente per la pellicola, una meno ispirata dell’altra.
Segue a ruota un doppiaggio italiano a dir poco tragico, tra voci insopportabili (Spolverina, santoddio!) e altre altamente improbabili, come quella del peloso e cornuto protagonista maschile che sembra qui un Orsetto del Cuore con la laringite, cosa che malauguratamente si sposa alla perfezione col suo aspetto.


La realizzazione digitale della Bestia è semplicemente insulsa, quando non controproducente: oltre a vedere in scena un cartone animato peloso fintissimo per gran parte della pellicola, questa Bestia non è minimamente minacciosa, ha lineamenti perfetti, cammina tranquillamente eretto, sembra un modello di Dolce e Gabbana con un grave problema di peli superflui. Troppo facile così, Belle, una passata di rasoio e ti rimane il belloccio depilato possidente terriero, vitto e alloggio in un castello e una servitù fantasy, e son buone tutte a “innamorarsi” così.
Ma veniamo alla nostra protagonista, la tanto decantata Emma Watson.
Ora, viste le precedenti principesse Live-action (la
Cenerentola coi ciglioni di Peo Pericoli, l’Aurora dismorfica di Maleficent, l’insopportabile Alice albina sostenitrice della razza ariana di Alice in WonderLOL) stavolta c’è andata di lusso, pensi, almeno finché non la vedi interpretare il personaggio: possiamo tranquillamente soprassedere sul fatto che sia un tappo (cosa che la sciagurata regia di Condon non manca MAI di sottolineare), è però impossibile non accorgersi di quanto sia una pippa astrale per quanto concerne la recitazione.

Due-espressioni-due, “corrucciata col broncio” e “sorrisone da paresi facciale”, sono l’enorme bagaglio recitativo messo sul piatto da una delle attrici più richieste del momento, una roba talmente desolante che Steven Segal e Christopher Lambert pare si siano rifatti vivi per chiedere i diritti d’autore.
Pensare che potevamo ritrovarcela protagonista di
La La Land al posto di Emma Stone fa venire i brividi.
Fa ancor più specie pensare che il cast di contorno, effettivamente di prim’ordine, venga relegato a semplice tappezzeria con particine relativamente piccole (Kevin Kline), o sostituito dall’ubiqua computer grafica dall’inizio alla fine (Ewan McGregor, Stanley Tucci, Emma Thompson, Ian McKellen PER DIO!), un fastidio che non ti dico.



Dice, ma non si salva proprio niente in questo baraccone? Si, qualcosa ovviamente si.
Luke Evans mette in scena il villain in maniera egregia, il suo Gaston tanto borioso quanto carogna è perfetto, ed è l’unico attore che sembra crederci davvero in tutta questa carnevalata senz’anima; alcune sequenze
 (l’attacco dei lupi, il numero di Gaston alla taverna) sono ben girate, e gli scambi tra Lumière e Tockins sono spassosi, ma conta poco quando anche i momenti più iconici dell’originale sono rovinati da coreografie imbarazzanti (la fintissima sequenza d’apertura nel villaggio) o da una gestione di tempi e spazi talmente pessima da arrivare a sputtanare perfino la scena del ballo di gala. No, sul serio.


In definitiva LA BELLA E LA BESTIA è semplicemente un pessimo film, il clone anonimo di un Classico Disney dal quale scopiazza senza vergogna situazioni e personaggi tramutando tutto in farsa, una carnevalata insipida tutta sulle spalle di due pessimi protagonisti, una CGI infestante e coreografie da oratorio, roba che neanche un buon villain e poche sequenze ben girate riuscirebbero a salvare. E infatti.


VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 4 ½

FAST & FURIOUS 8 - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Mi scuso per l’assenza con quei quattro che mi leggono, ma almeno stavolta era in preventivo: Mass Effect Andromeda ha praticamente prosciugato il mio tempo libero come previsto, Netflix non vuole smetterla di tirare fuori contenuti a lento rilascio di dipendenza (tipo Tredici, se trovo il tempo magari ne parliamo, intanto guardatevela sulla fiducia), ora si è aggiunta alla cumpa pure la Switch (e aspettare Natale #ciaone) quindi poco cinema in questo periodo, ma poco non vuol dire nullo, che è appena uscito pure Guardiani Della Galassia Vol.2 poi sfido io che le cose si accavallano.
Quindi via, rece veloce e furiosa di THE FATE OF THE FURIOUS, che de
La cura dal benessere non so se troverò mai il coraggio di parlare e un’altra #OperazioneRecuperoè fuori questione, che comincio ad avere un’età.…

C’erano una volta il veloce e il furioso, Fausto e Furio, e apparentemente ci sono ancora, e vi sfido a trovare una saga che abbia ancora qualcosa da dire arrivata all’ottavo capitolo… a parte
Star Wars, chiaro.
Ne è passata di acqua sotto i ponti: gente che viene, gente che va, generi che nascono, si tramutano, pescano dal glorioso passato anni ’80 del genere action più puro e volutamente scemo, ma nonostante tutto dopo 16 anni siamo ancora qui ad attendere un nuovo capitolo di questi supertizi senza superpoteri ma che, con auto che non potrete mai permettervi neanche di guardare da lontano, fanno robe che anche in
Mission Impossible ci si fanno i sogni bagnati.


E’ lodevole il tentativo degli sceneggiatori di portare avanti le vicende della
famiglia Toretto con una pretesa di continuity, evolvendone i rapporti e i contrasti interni, una dichiarazione d’affetto nei confronti di personaggi ormai iconici nella loro tamarraggine ma anche verso gli stessi spettatori che con loro sono cresciuti.
Preso coscienza che uno dei punti deboli della serie è sempre stato il contrapporre un villain macchietta per non mettere troppo in ombra ai suoi eroi, dopo la bella sorpresa del monumentale Jason Statham di FF7 (pericoloso cane sciolto e motore scatenante di eventi) in THE FATE OF THE FURIOUS il ruolo del cattivo da battere passa a una stronzissima Charlize Theron e nientemeno che al protagonista principale della saga, Vin Diesel stesso.


Il bello del personaggio è sempre stato l’essere un fuorilegge dal cuore d’oro e dal distorto ma solido senso dell’onore, un Lupin III tamarro che ha sempre vissuto la vita secondo un credo (“la famiglia prima di tutto”) e una legge (quella della strada e della velocità), il più delle volte ergendosi alla bisogna a vendicatore, uomo da giustizia privata e antieroe per eccellenza, punto di riferimento di tutte le varie formazioni del suo bizzarro ed eterogeneo nucleo familiare.
Il voltafaccia di Dom verso la famiglia, in questo ottavo episodio, è l’elemento inaspettato capace di spiazzare lo spettatore aprendo nuovi risvolti, è l’ennesimo espediente che riesce a mantenere la serie fresca dopo sedici anni oltre che, ovviamente, mero espediente per mettere l’uno contro gli altri e far esplodere le scene d’azione in tutta la loro reale potenza, caricandole ulteriormente di un sottotesto drammatico che, per come sono state gettate le basi finora, centra il bersaglio e alza nuovamente l’asticella dello spettacolo.


Spettacolo pirotecnico che parte con uno degli incipit più fiacchi della serie, va detto, ma la gara clandestina a Cuba serve evidentemente solo a tenersi buoni i fan della prima ora che hanno mal digerito la svolta action della saga: quella sequenza, col suo bagaglio di culi sventolati da contratto e recuperi impossibili a colpi di nos, arriva paradossalmente a risultare totalmente fuori posto all’interno della pellicola, ma una volta sbrigata la pratica si torna a far volare automobili con ignoranza, tranquilli.
Tutto ha inizio con Cipher (Charlize Theron), criminale informatica che vorrebbe Dom nella sua organizzazione criminale, e che al rifiuto di quest’ultimo passerà al ricatto più vile per assicurarsi la sua collaborazione incondizionata.
Parte così una caccia all’uomo in tutto il mondo, con la famiglia che vuole riprendersi il suo capobranco e Cipher che, con l’aiuto di un riluttante Dom, scatena caos e devastazione ovunque per poter mettere le mani sui codici nucleari russi.


Oltre ai soliti noti, come da tradizione il cast si arricchisce di nomi sempre più altisonanti: agli ormai insostituibili Diesel/The Rock/Rodriguez si aggiungono a gran voce Jason Statham e Kurt Russell, vere sorprese della pellicola precedente promossi qui ufficialmente a regular, e l’arrivo di addirittura due premi Oscar come Charlize Theron e Helen Mirren non può che sottolineare quanto la serie punti in alto, qualunque cosa voglia dire in una saga tamarracing dove il mondo viene ripetutamente salvato da piloti di corse clandestine.
Inutile dire che la trama in sé è una scusa bella e buona (e pure riscaldata, che è dai tempi di Sean Connery che agenti segreti più o meno presentabili devono recuperare il solito
ordignodafinedelmondo™ per salvare la baracca) e certi cambi di rotta nei rapporti tra i personaggi sono al limite dell'improbabiLOL ma diciamocelo, questo genere di film non si guarda per altre finalità che non siano puro entertainment : frega zero del realismo, vogliamo auto che volano (check ), missioni impossibili (check ), alleanze improbabili (check ), scene action enormi (check ), The Rock/Diesel/Statham che si legnano come fabbri (check ), stunt grandiosi (check ), gente che devia i missili a mani nude (check ), corse in auto adrenaliniche (check ), una colonna sonora tamarraggressiva (check ), sparatorie (check ), voli da altezze LOL (check ) e magari pure colpi di scena piazzati come si deve e si, qui c'è questo ed altro.

THE FATE OF THE FURIOUS di F. Gary Gray (
Giustizia Privata) è molto meno cafone di XXX – IlRitorno di Xander Cagema rimane pur sempre materia da cinque alti e birre fredde con gli amici: è cinema d’azione e d’intrattenimento nella sua forma più pura e diretta, volutamente assurdo e maledettamente divertente, forse meno dinamico dei precedenti ma come da regola sempre più grande, con sequenze action enormi, spassoso e casinista nell’anima.
Chi apprezza ama, ed io, modestamente, ama.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8? 8




ALIEN:COVENANT - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Ne avevo letto e sentito le peggio cose, il sequel di quel terribilmente sbagliato Prometheusche doveva fungere da prequel alla saga di Alien dal retrogusto leggerissimamenteincularello.
ALIEN:COVENANT arrivava quindi già battezzato da Internet come film brutto, noioso, idiota, confuso, pretenzioso, esagerato, incoerente, insomma il pacchetto hater completo per il solito capitolo truffaldino utile solo a mungere una vacca già morta da tempo, ed effettivamente per molti versi è proprio così.
Il fatto è che nonostante tutti i suoi bei difetti ALIEN:COVENANT non è affatto male come lo si è voluto
 dipingere in rete. Solo che non è il film che vi aspettavate di vedere.



Il primo problema di ALIEN:COVENANT non è tanto il doversi collocare temporalmente prima di un film seminale per l’intera storia del cinema (l’
Alien del ‘79), quanto dover in qualche modo giustificare quell’enorme cumulo di cazzate di Prometheus che gli gravita sulle spalle.
Una volta messo agli atti quindi che il primo
Alien (dello stesso Scott) e il suo meraviglioso seguito Aliens (di Cameron) sono e resteranno per sempre di un altro stampo/categoria/livello/universo, vediamo di analizzare questo quarto di prequel per quel che è.
ALIEN:COVENANT, al netto del nome importante che porta, è a tutti gli effetti il seguito di
Prometheus e un ponte fra due storie ben diverse fra loro, è un film con obblighi veramente scomodi in quanto si prende il carico di chiudere apparentemente la parentesi degli Ingegneri per poter essere libero di esprimersi al suo meglio ed iniziare a raccontare qualcosa di cui effettivamente possa fregarci qualcosa, qualcosa con più xenomorfi neri assassini e meno giganti albini coglioni.



Le intenzioni sono buone, ma sfiderei chiunque a riuscire a dare un senso alle minchiate partorite da Damon Lindelof nel 2012, all’apice della sua (speriamo conclusa) carriera di sceneggiatore.
Nelle mani di Scott la nuova storia presenta tutti gli elementi cardine che hanno caratterizzato la saga: una messa in scena contestualizzata splendidamente e subito riconoscibile, un’ambientazione claustrofobica, asettica e buia, un equipaggio sacrificabile e uno xenomorfo cattivo come la morte.
Ma si tratta di uno specchietto per le allodole, perché quelli che prima erano gli elementi base di un tipico film del filone diventano qui improvvisamente un mero contorno: la storia e i suoi comprimari ruotano tutti attorno a Walter, sintetico a bordo della nave colonizzatrice Covenant, e al suo vecchio modello David che aveva già fatto danni nel film precedente.
Il film di Ridley Scott è incentrato sul concetto filosofico di vita ed intriso di una filologia religiosa che lascia interdetti in più occasioni: nascita, crescita (interiore e fisica), mutamento e morte si mischiano e danno luogo ad uno strano ibrido che può spiazzare lo spettatore/fan medio, corso in sala per vedere magari l’ennesimo pic-nic rosso sangue a base di umani a bordo di una nave alla deriva nello spazio, trovandosi però davanti tutt’altro.



Eppure, nonostante giochi le sue carte in un campo affollatissimo e consolidato, ALIEN:COVENANT mostra del buono e dell’ottimo in più occasioni: la messa in scena è sontuosa e la costruzione delle inquadrature impeccabile, diverse sequenze sono angoscianti al punto giusto (dallo sbarco all’arrivo nella Necropoli) e tutta la sottotrama dei superstiti del Prometheus è davvero molto interessante, soprattutto perché ai due sintetici sono dedicati (quasi tutti) i momenti migliori della pellicola, scelta comprensibile dato che Michael Fassbender nonostante a volte inciampi malissimoè sempre di una bravura mostruosa, ed è effettivamente l’unico personaggio che ha una sua ragione d'esistere.
E qui naturalmente arriviamo alle magagne: perché si, David e Walter sono caratterizzati da Dio, ma all’equipaggio della Covenant tocca fare la brutta copia di quelli della Nostromo e della Sulaco, senza peraltro riuscirci perché alla fine gli unici due che ti restano in testa sono la finta Ripley con la faccia della Cristoforetti e il tizio col cappello da texano giusto perché ha il cappello da texano, mentre il resto si mescola un po’ a caso tra le interiora a fare da tappezzeria; essendo i due sintetici i protagonisti la cosa di per sé non sarebbe neanche questo gran problema, comincia però a diventarlo quando parte il grand guignol e ti rendi conto che, non fregandotene una mazza di tutti quei poveri cristi, con loro se ne va anche qualsiasi pretesa di ansia o tensione.



L’alieno, questa splendida macchina di morte che ci ha terrorizzato uscendo dalle fottute pareti ogni singola volta, non fa più paura, o meglio non è messo (volutamente) nelle condizioni di farlo: lo xenomorfo continua, dopo
Prometheus, a non essere più il protagonista/antagonista assoluto né tantomeno il punto focale della faccenda, restando sullo sfondo insieme alle sue vittime riempiendo più che altro lo slot dedicato al fan service.
Scott per tornare al suo Alien la prende larghissima come la Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, e sono il primo a trovare interessanti i retroscena sulla nascita degli xenomorfi (che per inciso NON sbattono necessariamente l'Aliens di Cameron fuori continuity come si legge in giro) e per carità pure la volontà di filosofeggiare di vita raccontando di una macchina di morte, c’è insomma del buono in ALIEN:COVENANT, ma viene diluito da troppa gente che sui pianeti alieni pesta e tocca ancora tutto senza un minimo di buonsenso, ci sono una marea di buchi narrativi e logici tra la nave aliena che non è dove dovrebbe essere, il liquido nero, i tempi d’incubazione alla cazzo di cane, ci sono personaggi con reazioni emotive da schizofrenico grave che non ti spieghi e un colpo di scena finale telefonato come pochi.

Bad ideas, Since 1979


Un po’ questo cambio di rotta era chiaro già in
Prometheus, e conoscendo Ridley Scott ero pronto a tutto ciò, ma alla luce dei fatti non posso dire che come “film di Alien” sia un film riuscito perché di fatto non lo è MA visto nell’ottica del film di fantascienza moderno tendente all’horror con spruzzate di filosofia spicciola e dal sottotesto pesantemente biblico, questo Apocalypse Now spaziale all’ennesima potenza funziona, pur con tutte le sue lacune, pur faticando a trovare il ritmo giusto della tensione e la sua vera anima filmica, pur inciampando lungo il percorso in un paio di scene WTF!? da antologia (quando arrivate al puparo o a David che suona il piffero uscite dalla sala per 5 minuti, fatevi un favore), nonostante tutto questo ALIEN:COVENANT ti lascia la voglia di vederne ancora, la curiosità di sapere come proseguirà e come (e se) riuscirà a riallacciarsi a quel capolavoro indissolubile che fu Alien.  
Non c'avrei scommesso una lira. E invece.



IN BREVE: film più bilanciato e strutturato decisamente meglio di Prometheus(ci voleva poco), non regge come “film di Alien” in sé nonostante ne riutilizzi pedissequamente lo scheletro di base, ma come film di fantascienza si lascia vedere e coinvolge, lasciando alto l'interesse per un seguito.
Poteva essere meglio, poteva andare molto, molto peggio.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:7 ½




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