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Channel: La Piccola BlogTeca degli Orrori di MisterZoro
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PRANDELLI PAN E L'ITALIA CHE NON C'E' (PIU')

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Io questo post non lo volevo neanche scrivere.
Non lo volevo scrivere più che altro perchè non volevo cominciare a portare il mondo del calcio nel blog (il calcio quello vero, quello reale, senza tornadi di fuoco e catapulte infernali, quello pieno di merda e scandali facili per intenderci…quello che fa schifo dai), alla fine perché non lo volevo sporcare, credo.
Volevo mantenerlo pulito, come il calcio che amo io: quello fatto di sofferenza e di grandi vittorie, si sforzi e fatica, d’imprevisti e grandi rimonte, di agonismo e sportività, di campioni onorati e onorevoli, ma soprattutto del bel gioco e di affetto verso una maglia.
Quello che non esiste più, insomma.
Perché questo sfogo, quindi? Perché scrivere di qualcosa ex novo quando hai già lì un post pronto da una settimana?
Perché, come quando fai una litigata da carabinieri sotto casa e sceneggiate napoletane, lo sfogo viene meglio surfando sull’onda della tragedia emozionale, cogliendo l’attimo.
Peccato che da questo punto di vista l’attimo dura da molto di più di un attimo, un attimo ancora più ungo di quando la cena era pronta e “un attimo” stava per “devo salvare mamma”.
Ecco, un attimo eterno, che la cena si fredda.
E noi come ItaliaNazionale Italiana no no, Italia siamo praticamente a digiuno da una vita.
Ora, ieri sera si è sentito tutto e di tutto e su chiunque, e Prandelli che ha sbagliato i cambi, e l’arbitro che era il fratello travestito di QUEL Moreno, e che la squadra non girava comunque, e… e il bello è che non c’è una scusa più valida dell’altra, perché avete ragione tutti, e di questa partita, anzi no di questa Italia, io non mi sento di salvare NIENTE.
E va bene, siamo tutti allenatori quando una squadra non gira, va bene ma questo è il mio blog, e questo è quello che penso io, è il mio sfogo uterino, sono a casa mia e sarò pure libero di dire quello che cazzo penso!


E cosa penso…
Penso che non ha funzionato niente, dall’inizio, da quelle schifo di amichevoli giocate ad minchiam perché tanto chissenefrega, non contano niente no? Sperimentiamo ‘sto modulo de “la qualunque” via!
Penso che rinnovare il contratto ad un allenatore della Nazionale PRIMA di una competizione internazionale (e con due risultati amichevolmente patetici alle spalle) sia quantomeno prematuro se non fino, si perdoni il termine, una puttanata che fa il giro tre volte!
Penso che se ti metti in testa di arrivare da qualche parte, in un mondiale, non puoi permetterti di affrontarlo con gente come Chiellini, che è inguardabile ad ogni livello e ad ogni passaggio è un errore, ad ogni movimento è un fallo, ad ogni difesa è un cratere in area!
Penso che non puoi affrontarlo con uno come Bonucci, scarpaio allucinante, giustificandoti raccontando a caso che con Barzagli e Chiellini si trova a memoria, e poi (aggravante) non li fai mai giocare insieme e continui a cambiarli di ruolo in moduli pane-amore-fantasia-fate il cazzo che vi pare!
Penso che nel 2014 non si può, non si può continuare a puntare tutto su Balotelli, il più sopravvalutato fancazzista e menefreghista mai visto calcare i campi da gioco: basta, ficcatevelo in testa, non ne ha voglia, sembra un brasiliano over 30, basta dire che è un bravo ragazzo, basta dire che deve crescere, quello ha solo la figa nella testa, non crescerà mai, è un altro Cassano e quello è nato stronzo e morirà testa di cazzo!
Penso che gente come Thiago Motta, Paletta e Aquilani non ce la voglio vedere in Nazionale, e allo stesso tempo che Giuseppe Rossi ce l’avrei portato perfino in carrozzella in Brasile!
Penso che Pirlo là in mezzo, e Verratti, e Darmian quando non è marcato siano le uniche cose positive viste in un mondiale di una scarsità aberrante!
Penso che poi la sfiga ci veda azzurro da dio, tutto quello che volete, che quelle mille traverse e pali avrebbero cambiato la storia di questo schifo di torneo, che se avessimo trovato un arbitro non palesemente venduto figlio di troia Moreno 2 magari in 11 avremmo fatto muretto e difeso questo schifo di pareggio (con l’Uruguay…), che se De Rossi non si fosse sfasciato magari un po’ meno colabrodo saremmo anche potuti essere.
Ma penso anche che recriminare come imbecilli dopo aver perso con il Costa Rica, dove fino a ieri sapevano solo esportare banane e dove il calcio l’hanno scoperto tipo ieri l’altro leggendo su internet dei mondiali, e contro l’Uruguay, dove oltre a Cavani e a bestie da abbattere come Suarez c’è il nulla al cubo, sia da vergogna generazionale che prende fino i parenti acquisiti.
Penso che se ti presenti ad un mondiale di calcio senza che la tua nazionale sappia giocare a calcio, che se non riesci a fare due-passaggi-due senza sbagliarli, che se dopo una settimana dalla prima partita accampi scuse di stanchezza, che se ti attacchi al caldo, agli arbitri, ai rotti, alla sfortuna, a tutto quello che implichi non dover ammettere al mondo che non hai saputo dare un’identità alla tua squadra, una squadra che non esiste, senatori e un paio di giovani a parte piena solo di gran puttane miliardarie senza un attaccamento alla maglia, senza un gioco, senza intesa, senza stimoli vuol dire che tutti i tuoi bei progetti di allenatore sono tanto campati in aria quanto i tuoi sorrisi tirati e il tuo buonismo da manuale che non ha portato altro che figure di merda.
Vuol dire che hai fallito su tutta la linea. 

E vedi di non sbattere la porta quando esci
E cosa resta? Resta l’amarezza di un mondiale strano dove le grandi arrancano e le piccole ci giocano dentro, restano ricordi amari di tre incontri mediocri che dimenticheremo ancor più per bisogno che per voglia, restiamo noi che ci eravamo voluti illudere ancora una volta, guidati da una passione per un gioco ormai irriconoscibile rispetto a quello che di sogni, da piccoli bimbi sognanti, ce ne ha regalati tanti.
Resta un settore giovanile ai minimi termini che fa pena e schifo in quanto a gestione, il che rende il tutto ancora più amaro se si pensa alla grande tradizione calcistica del nostro paese, quando ancora i giapponesi facevano anime sul NOSTRO mondo del calcio.
Restiamo noi, che speriamo nel prossimo europeo, o che fra 4 anni sarà davvero cambiato qualcosa. E già si pensa ad Allegri per il dopo Prandelli, e io da milanista mi tocco le palle da signore giurandoci sopra che, se così fosse, quelle tre serate prima di uscire da qualunque competizione le impiegherò SICURAMENTE in altro modo.
Resta un malcontento generale di un paese che, nel suo precario equilibrio volto sempre più verso la parte sbagliata del precipizio aveva bisogno di sognare, e ancora una volta si è svegliata con una sberla di quelle potenti e una secchiata di piscio calda nel letto.

Per fortuna che esiste ancora la PlayStation. Per fortuna che c’è sempre Inazuma Eleven.
Certe soddisfazioni, da queste parti, ormai le troviamo solo lì.



THE HUNGER GAMES E LA SERIALITA' NEL CINEMA

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A mia discolpa, c’è da dire che non sono mai stato un nemico della serialità.
Lasciando da parte le serie tv che negli ultimi 10 anni hanno subìto una megaevoluzione assurda, ottantasucento in positivo, la serialità nel cinema è qualcosa che molti puristi guardano storto, un po’ come una persona normale guarderebbe un Fabrizio Corona incontrato a caso per strada.


Tanto per chiarire
Quando noi neotrentenni eravamo piccoli le grandi serie erano AlienGuerre StellariRitorno al FuturoDie Hard, NightmareScuola di Polizia, più altra robe ovviamente che tanto per fare numero buttava fuori una porcata uguale all’altra, tipo Venerdì 13, ok…ma oggi?
Quali sono oggi le grandi serie cinematografiche che caratterizzano il millennio che ci accompagna già da 14 anni e che già ci sta fortissimamente sulle gonadi?
C’è stato il grande successo di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli, primi della lista e neanche ultimi degli stronzi, giusto per, ma il punto cruciale della questione è: perché fare serie? Per i soldi, ebbravo genio, ok, siamo tutti d’accordo, ma cosa caratterizza un’ottima serie cinematografica, cosa la distingue da tutta la rumenta capace solo di segnare una tacca ad ogni capitolo tanto per fare (chi ha dettoResident Evil)?
Esatto: la storia. Se hai una bella storia, ed è una storia valida, con una sua evoluzione, con un suo perché, un significato ,un maledetto cazzo di senso di esistere, allora si, io sono FAVOREVOLISSIMO ad una serializzazione.
E’ questo il caso (per quanto riguarda il sottoscritto che NON HA MAI LETTO I ROMANZI e che quindi non sa come la storia procederà e dei vari “ma nel libro va così” e “ma la storia è diversa” se ne sbatte altamente, godendosela pertanto di più) della serie cinematografica di Hunger Games.


Analizziamo la cosa brevemente.
Quando ancora l’infido pericolo dei vampiri catarifrangenti e dei samoani con irrimediabili problemi tricotici (quella piaga per l’umanità tutta che rispondeva al nome di Twilight e al cognome di Merda) non era stato del tutto debellato, il vero problema era riuscire a trovare nel panorama cinematografico di genere un buon motivo per ritrovare la fiducia nel futuro.
Fortunatamente quell’anno giunse la risposta.
The Hunger Games, per quanto sempre appartenente al genere fantastico e in qualche modo afflitto da un paio di turbe sentimentali di troppo, era la risposta che stavamo aspettando: nuovo, intenso, semplice ma profondo, bastardo, commovente, emozionante, quasi realistico nella sua estremizzazione del futuro cupo che ci aspetta e pieno di una satira velenosa del capitalismo e dei mass media che mmmammamia, da quanto mancava?
Certo c’erano cose da migliorare (il climax) o da eliminare proprio (quei cazzo di barboncini mutanti, dove vanno vanno fanno sempre danni, chiedere a Ang Lee e al suo cacchio di Hulk) ma il resto era ottimo.
Passa solo un anno e la lezione è stata chiaramente recepita, perché The Hunger Games – La Ragazza di Fuoco è davvero un signor film.
Non sto a raccontarlo, l’avete visto tutti, voi e pure i sassi, ma il fattore più importante che emerge e si fa beffe di (quasi) tutte le altre trilogìe/genealogìe/nevralgìe viste in questi anni è quello che riguarda l’evoluzione della storia.

Julianne Moore e il compianto Philip Seymour Hoffman.
Compianto si, però cazzo pure tu con 'sti speedball...
La storia di Hunger Games, sarà per la capacità di acchiappare lo spettatore grazie alla sua vena insurrezionalista, sarà perché riesci ad affezionarti ai personaggi che ti sbatte in faccia e nell’arena, toh, ammazzatevi, sarà perché le tematiche e le ambientazioni grigie e cupe da delirio postatomico contrapposte a quel merdosissimo e infame Grande Fratello condotto dall’Alessio Marcuzzo con la dentiera di The Mask le sentiamo molto più vicine e (Dio non voglia) prossime a noi, piuttosto che una meravigliosa story arc spalmata su sette anni in una scuola di magia o delle battaglie per liberare una Terra di Mezzo che non è neanche da queste parti, tutto quello che volete ma per com’è impostata su pellicola funziona alla grande, perché è un meccanismo maledettamente perfetto.
Il primo capitolo getta le basi, il secondo le sconvolge, e il terzo…mammamia il terzo capitolo.


Filmicamente diviso a metà, come da pessima abitudine della Hollywood alla canna del gas di questi tempi, Hunger Games – Il Canto della Rivolta (Parte Uno)non perde tempo a raccontarti la rava e la fava del primo e del secondo capitolo, certo la nomina, certo le rivanga reinserendole in discussioni pertinenti e mai come spiegoni reiterati a nastro, e ti scaraventa in piena rivolta, alle porte del conflitto, una situazione che è già oltre il punto di non ritorno in cui un governo dispotico filonazista e figlio di troia cerca di sedare la rivolta, con i ribelli trovano in Katniss Everdeen la loro arma di punta mediatica e gli altri che rispondono specchioriflesso utilizzando l’ex campione del popolo contro di loro; la resistenza inizia una campagna mediatica di smascheramento televisivo del governo dai distretti distrutti, Capitol City ribatte con esecuzioni in piazza in mondovisione; i vari distretti cominciano ad insorgere pesantemente uccidendo le guardie in bianco prese di peso da Vanquish, quelli s’incazzano e fanno una strage, in un botta e risposta dolorosamente devastante e logorante, in quella che ancora non è una guerra ma di sicuro lo sta diventando.

Non è tutto stronzo oro quel che luccica.
Ma il visagista delle dive, quello si, è truccaaaatiSSimo
Come sentiva serpeggiare il cambiamento ne La Ragazza di Fuoco dove poteva quasi toccalo con mano e capire, scena dopo scena, che le basi gettate che dava ormai per scontate non sarebbero più state valide, lo spettatore avverte in questa prima parte de Il Canto della Rivolta filmico un’evoluzione sofferta e pianificata in modo magnifico, tenendo pure conto che si, l’azione c’è, i colpi di scena non mancano, ed il tutto appare agli occhi dello spettatore imbecille-nel-sensoche-imbelle come me (cioè quello che NON ha letto neanche un romanzo e quindi è del tutto spoiler free) come una magnifica partita a scacchi, dove ognuna delle due fazioni posiziona i pezzi, lasciandocene qualcuno sul terreno di gioco, in attesa di portare l’affondo finale, affondo che probabilmente arriverà nella seconda parte, nella speranza che la Universal ci faccia la grazia di non spezzettare l’ultimo film in altre due come si è vociferato ultimamente.
Staremo a vedere.
Quel che conta è che il film mette in scena l’evoluzione di una storia inizialmente “semplice”, una fantascienza politica anni ’70 come ormai il cinema non vede più da anni inscatolata come blockbuster e venduta ad un pubblico che di questo tipo di film ha solo una vaga memoria, un’eco di racconti e citazioni di spettatori più attempati che cercano di convincere i propri figli che “Si, 40 anni fa il Cinema di fantascienza era qualcosa di un attimo più approfondito, diverso, serio, che trasmetteva messaggi forti e lasciava pensare, come oggi voi non avete idea…”


E quindi uno spera con tutte le sue forze che il quattordicenne che si è catapultato al cinema in forze, quello col cervello collegato in Lan con gli altri 7 compari, possa capire.
Possa capire che dietro quella bravissima attrice di Jennifer Lawrence e a tutti gli ottimi comprimari, dietro a quelle esplosioni, dietro ad ogni freccia e ad oggi orribile visione di questo conflitto che si annuncia una carneficina ci sia molto di più; che possa capire che non si trova in quella sala semplicemente perché ha davanti il n°X di una serie che alla maggioranza dei suoi amici piace e perché i biglietti per Scemo e Più Scemo 2, cazzo, erano finiti; che possa capire il significato che quegli stacchi propagandistico televisivi stile Barbara d’Urso siano qualcosa di agghiacciante, che quel fottuto attrezzo in HD che vomita in faccia a chiunque lo veda bugie create ad hoc da esperti di grafica e montaggio è il male per come viene usato, che il messaggio che diffonde è il male, che la finzione ha fatto il giro ed ha soppiantato la realtà esasperandola, soggiogando le menti dei suoi deboli spettatori imponendo tematiche idiote per sviare il pensiero di massa a qualcosa d’innocuo, come a un falso divertimento per spettatori fantasma conciati da imbecilli schiavi di mode ormai fuori controllo.
La metamorfosi, il cambiamento continuo, l’evolversi naturale di qualcosa che se fosse stato reiterato anche solo mezza volta (i giochi nell’arena) avrebbe spezzato il giochino e sarebbe venuto giù tutto, come una volta supertecnologica colpita da una piccola, semplice freccia elettrificata.
E io resto lì, esaltato da quello che ho visto, da un cinema che pensavo di non vedere più, da un messaggio così forte inserito in un contesto da Blockbuster che è anche una speranza per il cinema di domani, ma anche allibito nel sentire gente che si lamenta perché “si chiama Hunger Games ma non ci sono gli Hunger Games!”, da gente che il messaggio non lo coglie e vede solo i cattivi parrucconi col cerone contro gente in un silos che “fanno la rivoluzione come in V per Vendetta!”.
Non so come reagire, non so come comportarmi, sono e mi sento una minoranza solo perché voglio guardare un po’ più in là, perché mi esalto per una storia che ha qualcosa da raccontare una volta tanto e che lo fa in un modo più attento al contenuto che alla copertina, ma in fondo ne riconosco l’importanza ed è quello che conta, in fondo so che sono questi i momenti per i quali sarà valsa la pena aspettare tanto.
Finalmente abbiamo anche noi la nostra ghiandaia imitatrice.



IL MIO 2016 AL CINEMA – GENNAIO: UN BUON INIZIO

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Mi piangeva il cuore per l’aver praticamente abbandonato la Blogteca per un anno.
Mi rendo conto che sono una brutta persona, sono sempre più pigro (sarà l’età), ma si metta agli atti che parte della colpa è di Playstation4 e di Netflix che nell’ultimo anno hanno monopolizzano il mio tempo, e pirla io che non riesco a uscire dal gorgo.
Avrei voluto scrivere diverse volte su un film, una serie, un gioco, un libro, ma ogni volta un nuovo film/gioco/serie/libro si rubavano il mio tempo, e…
Beh, se state leggendo, vuol dire che ho trovato il momento, il guizzo, la voglia, e memore della fatica nello stilare i listoni della morte sul cinema dell’anno precedente ho deciso di accorciare i tempi.
Ed ecco un breve compendio di tutti i film visti in sala di questo Gennaio appena passato, pronti?
Sorprese Inside:



Lo puntavo da quando, mesi fa, mi ritrovai davanti al trailer in sala: sarà stato l’affetto che ho sempre provato nei confronti il romanzo, sarà stato per la questione del doppio racconto concatenato, ma fu amore a prima vista.
Con aspettative così alte potevo benissimo essermi fatto un’idea sbagliata, potevo essermi fatto trascinare dall’amarcord, potevo rimanerci male ma di un male che guarda…
Per fortuna c’avevo visto giusto: Il Piccolo Principe di Mark Osborne è una vera meraviglia, per gli occhi e per il cuore, una storia delicata e bellissima che ingloba il romanzo originale, lo attualizza senza snaturarlo e ne trae un racconto di formazione ancora più toccante e riuscito.
Tecnicamente non siamo ai livelli mostruosamente alti dei film Pixar, intendiamoci, ma la realizzazione è comunque incantevole, a maggior ragione tenendo conto della doppia resa di stili in CGI (realtà) e stop motion (racconto), che veicola e mescola gli avvenimenti in modo magistrale.
L’essenziale è invisibile agli occhi recita una delle frasi più celebri del romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, e infatti ciò che davvero porta il film a spiccare definitivamente il volo è una terza parte che il trailer, saggiamente, non mostrava: ad un certo punto i due racconti si fondono e ciò che ne scaturisce è una meravigliosa riflessione sulle difficoltà della crescita, sulla perdita dell’innocenza e in generale sul modo in cui la grigia società attuale costringa a crescere dimenticando chi siamo, la gioia e la spensieratezza, la perdita dell’innocenza.
Magari mi attirerò le ire dei fan integralisti ma, detto fra noi, a parità di temi trattati Il Piccolo Principe piscia tranquillamente in testa al pur buon Inside Out. Ma tranquillamente, proprio.
Non poteva iniziare meglio il mio 2016 al cinema.
IN BREVE: Una storia più matura e meno commerciale di tanti prodotti americani, permeata di una magia unica, narrata splendidamente.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 9



Sono andato a vedere l’ultimo film di Spielberg con le migliori intenzioni, giuro.
Mi avevano raccontato di un procedural molto particolare, fuori dai classici schemi, con un Tom Hanks mostruoso e una storia d’ampio respiro, e se c’è una cosa che ho imparato nella mia lunga militanza al cinema, è che fondamentalmente le buone intenzioni non servono grossomodo a una ceppa.
Va detto che partivo da una base storica, nel senso che avendo a lungo letto/studiato/spulciato tutto il possibile su JFK mi ero già imbattuto nella vicenda riguardante Francis Gary Powers e soprattutto nella figura di James B. Donovan, questo più che altro per il lavoro fatto tempo dopo nel post Baia dei Porci.
E cos’ho trovato? Ho trovato un Tom Hanks davvero in parte, più che in altre occasioni; ho trovato un ottimo Mark Rylance, interprete della spia russa Rudolf Abel, e… per il resto, un film molto, troppo sopravvalutato.
Innanzitutto chiariamoci: NON è un procedural, neanche uno fuori dagli schemi. Ma ci può stare, in effetti più che in tribunale la vicenda viene trattata sottobanco e risolta fuori dall’aula.
Colpisce un’apprezzabile resa asettica del periodo storico e del contesto in cui si svolge il tutto, ma il vero problema è che la storia sembra trascinarsi, nonostante di suo sarebbe potuta essere proposta in maniera molto più intrigante. Vogliamo fare un esempio, restando anche in ambito Kennedy? JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone. Drammatico, incalzante, storicamente preciso (fedele anche sulle varie teorie), mai noioso. Tutto un altro pianeta.
E’ inutile, per quanto ci provi non riesco a digerire lo Steven Spielberg degli anni 2000: quello di A.I.La Guerra dei MondiMunich, quel micidiale monumento all’orchiclastia di Lincoln, è un cantastorie stanco e confuso, maledettamente prolisso e incapace di far scattare la scintilla che che un tempo dava vita a capolavori più alla portata del suo modo di narrare. Quanto mi mancano gli anni 80/90…
PS= Sapere che Spielberg dirigerà l'adattamento cinematografico del romanzo nerd per eccellenza dell'ultimo decennio (Ready Player One) mi fa venire un latte ai coglioni che non vi dico...
IN BREVE: Un film ampiamente sopravvalutato, una vicenda interessante che doveva (e poteva) essere raccontata decisamente meglio. Due ottimi interpreti non bastano. Sterile.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7



Credo sia la prima volta che parlo di un film di Checco Zalone (ed è anche la seconda che mi capita di vederne uno) e non so da dove cominciare.
Il personaggio Zalone, ai tempi di Zelig, non l’ho mai seguito e mi stava pure un po’ sulle palle, diremo.
Poi ho visto Sole a Catinelle e non ricordo il tempo di aver riso tanto per un film italiano.
Questo Quo Vado? pur giocando nello stesso campionato è un animale diverso. Nonostante nel precedente vi fossero già diversi richiami alla situazione sociale e politica del momento, quest’ultimo film è essenzialmente la vera commedia all’italiana del 2000. E no, non sto parlando di Bénfi che si strozza il nano guardando da un buco della serratura, o del primo Ciavarro o del Pierino di Jean Todt.
Checco Zalone (con le debite proporzioni e considerato il periodo temporale, non mettetemi al rogo) fa oggi quello che faceva il grande Alberto Sordi nei 50/60 e Paolo Villaggio col suo Fantozzi nei 70, ossia parlare dell’italiano medio nella sua contemporaneità, mettendone alla berlina l’impatto sociale, l’egoismo, le (gravi) lacune culturali e la situazione sociale dove il suo “Checco Zalone di turno” si muove.
La sacralità del “posto fisso”, l’indole da mammone viziato che a 40 anni non molla le comodità della vita coi genitori e che fugge dalle responsabilità di un matrimonio che non s’ha da fare, tutti temi “caldi” in un paese ormai ridotto a macchietta in quanto a credibilità.
Ne esce un film divertente e permeato di una comicità sempre sopra le righe ma mai volgare (a parte un paio di passaggi forse), che più che provocare la butta sulla battuta sferzante, ma il suo bel risultato tra incassi e critica se l’è portato a casa, è evidente che all’italiano medio piaccia farsi amabilmente prendere per il culo. E’ sempre stato così, d’altra parte.
IN BREVE: Diventare campioni d’incassi e di risate prendendo per il culo lo spettatore medio che ti paga per continuare a farlo. Vittoria al quadrato e masochismo fuori scala.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8



Diciamolo subito. Non è un film per tutti.
Più che altro non è un film da guardare intanto che si mangia una pizza davanti alla tv, non è una pellicola da prendere sotto gamba: è una di quelle che richiede attenzione dal primo all’ultimo dei suoi 130 minuti, dove se uno si distrae anche per un attimo rischia di perdere il filo e ciao.
La Grande Scommessaè un film che si svolge nel mondo finanziario, stracolmo di termini tecnici, dove però non è necessario essere competenti in economia per capirci dentro qualcosa: la forza de La Grande Scommessa è nella narrazione e nella sua capacità di vomitare sullo spettatore centinaia di nozioni tecniche e, nonostante questo, lasciarsi seguire in maniera esemplare.
Siamo all’alba dell’esplosione della crisi finanziaria USA del 2007-2008, dove un gruppo di persone riesce ad intuire la situazione critica del mercato immobiliare statunitense, degenerata a livelli catastrofici e costantemente negata da Wall Street, e ad approfittarne traendone profitti impensabili scommettendo contro il mercato.
Il film di Adam McKay è decisamente una ventata s’aria fresca nel panorama cinematografico, essendo a suo modo un mix riuscitissimo tra il film di denuncia, documentario e biografico, il tutto portato avanti dal tocco brillante del regista e sceneggiatore, che riesce a rendere interessante una sequenza concentrica di tecnicismi sparata a mille.
Fondamentali per la fruizione del tutto da parte anche dei non addetti ai lavori, un cast perfetto guidato dal sempre ricercato Christian Bale e soprattutto da un intenso Steve Carell, che si riconferma attore a tutto tondo perfetto anche in ruoli drammatici.
La Grande Scommessa si iscrive in quel limbo strano dove vive solo lui, tra un Ocean’s Eleven drammatico e un Wolf of Wall Street senza droga e puttane, funzionando come un orologio svizzero.
IN BREVE: Thriller finanziario, tecnico fino alla morte ma perfettamente fruibile da chiunque. Meccanismo impeccabile che non manca un colpo.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8 ½

Ed eccoci qua, al tanto discusso e odiato e amato e laqualunque Revenant di Alejandro González Iñárritu.
Togliamoci subito il dente del giudizio: a me è piaciuto, e neanche poco.
Perché io la meno sempre con “la storia”, “la sceneggiatura”, poi un bel giorno arriva Iñárritu e non dicendo niente a nessuno e si permette di tirare fuori un bel film con una trama che potrebbe essere scritta su un tovagliolino da bar. Lasciandoci spazio sufficiente pure per qualche disegno osceno.
La trama è infatti la storia più vecchia del mondo, ma per una volta conta di più il contenitore del contenuto: perché la vendetta è un piatto che va consumato freddo, e il freddo non manca in Revenant.
Ma cosa rende un film sulla carta semplice una vera esperienza cinematografica, a parte l’estremo tentativo di Leonardo Di Caprio di portarsi a casa quella fottuta statuetta di merda per il solo gusto di pisciarci sopra e usarla come fermaporta? Una regia mostruosamente impeccabile, e una fotografia da brividi, che non lo chiedono l’oscar: lo ESIGONO.
Revenant non è un film perfetto, nessun film lo è fino in fondo, ed è decisamente crudo in molti momenti, perfino quasi splatter in altri, e la durata non lascia certo indifferente… solo che appena comincia vieni scaraventato in mezzo al massacro come un reporter di guerra, poi passi a una puntata di Bear Grylls con esiti molto (molto) peggiori, e il bombardamento d’immagini/suoni/emozioni è talmente frastornante che
non hai materialmente il tempo di annoiarti, perché sei aggrappato alla pelle dura di quest’uomo che non vuole saperne di morire, soffri con lui, t’incazzi per quello che gli hanno fatto e resti attaccato alla sua vita con le unghie e con i denti, e lì ti rendi conto che Iñárritu ha già vinto.
Perché per raccontarti una storia che più semplice non si può, ti ha fregato con la qualità: quando regia, fotografia e recitazione (bravissimo Di Caprio, ancora meglio Tom Hardy) sono ai massimi livelli, se giochi bene le tue pedine anche 2 ore e 45 volano in un niente.
IN BREVE: Una storia minimale di vendetta raccontata in modo splendido. Una formidabile lezione di cinema. Si, ok, l’orso è finto e si vede.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8

RECENSIONE: THE HATEFUL EIGHT - SPARARE A SALVE

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Cosa si diceva la volta scorsa riguardo le aspettative? Che sono un’arma a doppio taglio, quando va bene un power-up a pochi metri dal traguardo, quando va male (ossia la stragrande maggioranza delle volte) un dissetante bicchiere di urina calda in pieno deserto. Al costo non indifferente di 8,50 euro + prevendita.
Poi arriva Quentin col suo solito stile revisionista, fa testa o croce e la moneta s’impianta a forza per il lato lungo.
Segue SPOILEROSISSIMA recensione del nuovo, riuscito a metà, lungometraggio di Quentin Tarantino


The Hateful Eight, chiariamolo subito, NON è un western: ne utilizza l’ambientazione e i costumi, i tòpoi e gli stili narrativi dei registi che hanno fatto la storia del genere, ne sfrutta il più grande compositore di sempre, strizza entrambe gli occhi a decine di pellicole di Leone e Hawks e Corbucci, ma decisamente non è un western.
The Hateful Eightè un film strano, ricercato…forse fin troppo ricercato, tanto da apparire forzato: per capirci, dove The Revenantè palesemente studiato a tavolino per dare a Di Caprio l’opportunità di vincere quello stracazzo di Oscar,  il film di Tarantino nella sua interminabile, infinitamente prolissa prima parte è palesemente studiato a tavolino per farlo sembrare un film di Tarantino. Riuscendoci a fatica.
Chiaro? No? Fa niente, ci arriviamo.
La storia di The Hateful Eightè un racconto in capitoli nel classico stile Tarantino (anche se molto più lineare del solito) che per raggiungere il suo apice, per iniziare a raccontarti quello che davvero vuole raccontarti, la prende larghissima come la Serbelloni Mazzanti Viendalmare, o come il TomTom quando devi andare da A a B in linea retta, ma lo stronzo ti fa fare un percorso alternativo fra deviazioni, sterrati, pozze di lava e pollai attraversati di sfruso “perché si fa prima”.

Una diapositiva del percorso alternativo

Ecco, a tutta la prima parte Tarantino ha applicato il suo concetto di “si fa prima”, dove “suo” è chiaramente quello del TomTom.
Perché ok la presentazione dei personaggi, siamo i primi a non volere gli eroi macchietta, vogliamo personaggi approfonditi, i classici personaggi complessi del regista che si presentano a noi parlando tra loro del più e del meno, e tutto giusto tutto perfetto. MA UNA FOTTUTA ORA IN CARROZZA ANCHE NO.
Perché come mai Kurt Russell venga chiamato Il Boia nell’ambiente dei cacciatori di taglie lo si spiega in 30 secondi pure nel trailer.
Perché quanto sia cazzuto Samuel L. Jackson (mastodontica la sua interpretazione, va detto) lo si capisce dall’ingresso in scena sui cadaveri e da quelle prime due occhiatacce di taglio che tira a favor di camera nei primi minuti.


Perché per capire quanto sia fuori di melone Jennifer Jason Leigh basta guardarla, e anche qui, quello che si poteva dire senza spoilerare nulla del personaggio lo ha detto il trailer con due inquadrature.
Poi che Walton Goggins sia un coglione lo si capisce appena apre bocca, anche prima che parta col suo lungo omaggio a Jerry Lewis.
Ora ditemi allora che bisogno c’era di cazzeggiare per una fottutissima ora dentro quella maledetta carrozza?!
E giù di “guada che il negro ha una lettera di Lincoln”, e “davvero hai una lettera di Lincoln fammela vedere”, e “no non te la faccio vedere”, e “tu sai chi è lui”, e “lui quando era confederato aveva fatto un casino in quel fortino”, e “no davvero ma stai scherzando”, e “no guarda è davvero lui ti giuro”, e “maddai pensa che coincidenza, io combattevo dall’altra parte”, e “tu sei il figlio di tizio che era un coglione quindi tu sei un coglione alla seconda”, e che due coglioni lo dico io perché sono passati venticinque minuti di controcampi fissi e già non ne posso più della mia vita e vorrei vedervi morti subito tutti quanti.
Dov’è finito il Tarantino che in due minuti ci faceva capire il legame d’amicizia di due persone e tutto quello che c’era da sapere sul loro rapporto semplicemente facendoli sproloquiare delle differenze fra Amsterdam e Los Angeles, dal sistema metrico decimale ai coffee shop?


Quest’interminabile momento-verità-spetegulèss da sala d’attesa della parrucchiera dura un’ora, forse di più, forse di meno ma sembra molto di più, appesantisce i testicoli dello spettatore e, di fatto, ti ammazza il film in partenza in maniera brutale, ma soprattutto sottolinea quanto i dialoghi immortali de Le Iene e Pulp Fiction non fossero proprio tutta-tutta farina del sacco di Tarantino, e che un certo Roger Avary forse dovrebbe tornare a spiegargli come funziona la faccenda della “sceneggiatura brillante”.
Fortuna che dopo un’ora nella neve a dire cazzate senza senso finalmente arriviamo all’Emporio di Minnie e il film inizia davvero, ed era anche la cacchio di ora.
Qui The Hateful Eight tira fuori il suo meglio, ed è un meglio con le palle, come quell’antifurto inutile degli anni 90: il film, da Chiacchiere dal parrucchiere della Signora del West diventa una specie di remake de La Cosa di Carpenter (sempre sia lodato, lui e il film) e del Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, spingendo la narrazione nel territorio del giallo d’altri tempi/horror d’isolamento.
All’Emporio di Minnie abbiamo dei personaggi in cerca d’autore che completano in modo decisamente convincente il parterre di comprimari perfetto, un classico tarantiniano qui forse ai massimi livelli.
Abbiamo quindi un’ambientazione chiusa, una singola stanza piena di gente sopra le righe dove Quentin è finalmente nel suo habitat (e si vede) perchè la storia ti butta subito addosso il dubbio più antico e più efficace del mondo: chi non è chi dice di essere? Di chi fidarsi? Perché c’è ancora così poco rosso sulle pareti?


Il gioco delle identità si protrae per un bel po’ ma è un gran bel gioco ed è ben diretto, con Jackson che giganteggia su tutti e s’inventa una gigantesca partita a Cluedo dal niente, con Kurt Russell che a momenti sospetta perfino di se stesso, la Leigh totalmente fuori controllo, un Tim Roth sopra le righe che scimmiotta un po’ il Christoph Waltz di Django, un Bruce Dern particolarmente incarognito, un Walton Goggins particolarmente coglione e un Michael Madsen spettacolare nel suo tipico ruolo da Michael Madsen, che tutti amiamo.
Qui il tempo vola, anche se Jackson si perde un po’ via con la storia del soffocotto forzato del figlio del Generale, una roba che a sentirla e tenendo a mente che l’ha scritta Tarantino due domande su fino a quanto e in che modalità gli piacciano gli afroamericani te le fai, ma vabbè.
Altra chicca tarantiniana, dicevamo, è la narrazione frammentata e, per quanto questo sia uno dei film più lineari del regista, prima del tripudio finale c’è un intero capitolo di retcon/flashback che mi ha troppo ricordato la scena del cesso de Le Iene, dove finalmente si scopre chi cazzo sia quell’individuo nel sottoscala che ha appena polverizzato gli attributi di Jackson, cosa voglia e in ultima istanza perché diavolo debba liberare a tutti i costi quella schizzata della Leigh, ormai più grumo di sangue che donna.
Il racconto apre una parentesi che, incredibilmente, arricchisce molto il tutto, ridisegnando completamente i personaggi bislacchi trovati dai nostri all’Emporio di Minnie e dando al tutto un respiro molto più ampio.


Ci sarebbe da domandarsi perché quel pirla di Channing Tatum abbia dovuto aspettare così tanto prima di fare una cacchio di mossa, con tutto che dopo la morte a spruzzo di Kurt Russell (e del povero O.B. che non c’entrava niente) la banda del buco fosse in stragrande superiorità numerica, ma non c’è tempo perché bisogna far scorrere quei 20 galloni di sangue, che poi lo spettatore medio di Tarantino ci rimane male se non finisce tutto in massacro, e allora ci s’infila un triello un po’ sbrigativo ma col sangue al ralenti che fa molto effetto, perché si, e i protagonisti che ormai hanno più buchi di una grattugia riescono a fare di tutto prima di crepare, compreso darsi un cinque alto virtuale all’ennesima rilettura della lettera di Lincoln.
Gli altri raus, a ridipingere i pavimenti di rosso, circolare.
A ripensare ai primi due interminabili capitoli mi parte ancora l’abbiocco pesante, mentre dal terzo al quinto il film ingrana una scelta azzeccata dopo l’altra, un meccanismo fluidissimo di dialoghi ispirati e battute feroci e bellissime, Very Tarantino Style.
L’ultimo capitolo, beh, l’ultimo capitolo è rosso, traforato e penzolante, e magari poteva venirne fuori una chiusura migliore, ma ci si può accontentare.
Si può dire che The Hateful Eight sia un film riuscito? A mio avviso no, troppo squilibrato nell’incedere della narrazione, con un finale che sembra un po’ tirato via, senza una scena potente che chiuda il tutto rimanendo impressa nella memoria collettiva come quella dei Bastardi o di Pulp Fiction.
The Hateful Eight è decisamente un film riuscito a metà. C’è solo da evitare come la peste la metà sbagliata.
 
IN BREVE: Una storia semplice ma interessante raccontata attraverso personaggi azzeccati ma dal ritmo troppo altalenante, che prima d’ingranare si perde in cazzate prolisse e soporifere.
Una parte centrale strepitosa non sorretta da un inizio comatoso ed un finale un po’ raffazzonato.
Tarantino ha fatto certamente di meglio.

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:
7

IL MIO 2016 AL CINEMA – FEBBRAIO: TRA MODA, IDIOTI E OSCAR

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Per The Hateful Eight, per tutta l’aspettativa, tutto quello che c’era da dire e di cui lamentarsi, c’era bisogno di un post a parte, perché si.
Qui diciamo che invece un bel post riepilogativo SPOILER INCLUSI basta e avanza, e a seguire duegiusto-due considerazioni sulla Notte degli Oscar, visto che non ne ha parlato ancora nessuno.Trois, deux, un, fiiiiiiiit! 






Ben Stiller in linea di massima lo trovo divertente, ho apprezzato molti suoi film (come Mystery Men, Dodgeball, I Tenenbaum) e ne ho odiati diversi altri (Tropic Thunder, Starsky & Hutch), ma quello che mi ha sempre dato più fastidio è la sua quasi totale incapacità di staccarsi del personaggio Ben Stiller: fateci caso, Ben Stiller interpreta sempre Ben Stiller in tutti i film con Ben Stiller.
A parte il bellissimo I Sogni Segreti di Walter Mitty, il primo Zoolander era l’unico film dove Ben Stiller interpretava un personaggio “nuovo” rispetto agli altri, sebbene totalmente imbecille tanto per cambiare.
In Zoolander 2, complice un eco mediatico mostruoso e un budget evidentemente maggiore, lo Stiller regista mette in scena la sua personalissima versione scema della spy story bondiana pucciata fino alla morte nel mondo dell’alta moda, un mondo popolato da imbecilli/ignoranti/vanesi/confusi esseri viventi e non pensanti nel quale ovviamente la summa dei personaggi stilleriani si muove con gran disinvoltura.
La cosa che dà più da pensare è di come il film, manifesto supremo di questa dimensione di eterea deficienza che non perde occasione di sfottere oltre ogni limite di decenza, sia stato talmente benvoluto da gente che quel mondo lo rappresenta (i vari Valentino, Tommy Hilfigher, Marc Jacobs e altri) da partecipare attivamente alla mostruosa campagna di marketing e addirittura a comparire nel film, in una spirale autoperculatoria che se ci pensate fa il giro e finisce per centrare il bersaglio più e più volte.
Ok ma, direte voi, alla fine Zoolander 2 fa ridere? Si fa ridere, e in più di un’occasione anche tanto, e mai involontariamente.
Il continuo rialzo all’assurdo (l’hotel di cacca, la giornata col figlio, l’evasione, la messa nera) sono sequenze da perfetto cinema demenziale che funzionano sia per il contesto già abbastanza assurdo di suo, sia per l’interpretazione dei protagonisti, coadiuvati da un esercito di star che reggono ed esaltano il gioco, alcuni prendendosi notevolmente per il culo.
Per dire, Justin Bieber in questo film l’ho adorato. Rendiamoci conto.
Avvertimento per i fan di Kiefer Sutherland e Benedict Cumberbatch: dopo Zoolander 2 non riuscirete più a guardarli con gli stessi occhi.
IN BREVE: L’idiozia del mondo della moda sbertucciato da una banda d’idioti DOC.
Meglio dell’originale, si ride, spesso anche di gusto, il suo lo porta a casa.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7 ½



Alla fine Deadpool, com’era prevedibile per tutti tranne che per quei coglioni che dirigono la Fox e che non si meriterebbero tutta questa fortuna, ha sbancato, o meglio sta sbancando perché a fronte di un “misero” budget di 58 milioni di dollari (che oggi a Hollywood ti danno per un cortometraggio povero) il film di Tim Miller ha già superato di gran lunga i 500. In due settimane. Un film globalmente vietato ai minori (tranne qui). Sticazzi.
Tutti a piangere alla Fox, dove per contratto devono essere incompetenti e avere la faccia come il culo, sangue temendo il disastro, lo sfacelo, non incasserà mai perché lo vietiamo ai bambini, chi verrà mai a vederlo?! Scimmie che non si rendono ancora conto che il mondo nerd ha atteso il film da una vita, nonostante il modo vergognoso col quale venne trattato il personaggio nel primo film di Wolverine, e che per la riuscita di questo campione d’incassi a basso costo dovrebbero ringraziare quella faccia di tolla di Ryan Reynolds, perché dai, sappiamo tutti che l’ha fatto circolare lui quel video-test in CGI.
Ma non dimentichiamoci di Tim Miller, un regista al suo secondo film (il primo dei quali non se l’era cagato di pezza nessuno) che a mio avviso è stata la scelta vincente della pellicola: per un personaggio cartoonesco come Deadpool, per portare quella ventata di ultraviolenza ed iperrealismo nelle scene d’azione in un personaggio consapevole di essere in un film e che si rivolge ogni 2x3 direttamente allo spettatore, un animatore era la scelta più azzeccata.
Si ok, va bene, ma com’è il film? Il film è una bomba atomica di azione, ed è quello che avrebbe dovuto essere OGNI film con Wolverine e non è stato: adrenalinico, violento, cazzuto, strapieno di citazioni e soprattutto di gente morta malissimo.
Ma è Deadpool, e quindi è anche scemo, assurdo, cazzone fino al midollo, divertente e molto (troppo) sboccato. Se c’è una cosa che mi ha un po’ infastidito è stata la continua ricerca della volgarità fine a se stessa, della serie “tanto siamo vietati ai minori, caliamo l’asso” e anche se non si arriva al megabestemmione di Johnny Depp in Paura e Delirio a Las Vegas, abbiamo comunque tutto il resto, reiterato più e più volte. Ma se è una tassa da pagare per eccesso, per dimenticarsi il personaggio nel primo Wolverine, per esasperare le meravigliose scene d’azione (quella in autostrada su tutte), allora paghiamola, e chi s’è visto s’è visto.
Anche perché quando Deadpool inizia ad essere Deadpool, quando la storia ingrana e vedi come l’hanno creato, quello che ha perso, cosa vuole riconquistare, beh… di qualche parolaccia di troppo te ne freghi, e lì il film vince a mani basse, anche grazie a un cast valido, dove Deadpool interpreta Ryan Reynolds che interpreta Deadpool, Morena Baccarin non è una novità per i fan di nerdolandia (Firefly, SG-1, V) e se la cava anche qui, il villain inglese di Ed Skrein ha una faccia da stronzo perfetta ed è doppiato male, il Colosso in CGI fa figure di merda a ripetizione ed è doppiato anche peggio, abbastanza inconsistenti i personaggi di Angel Dust e Testata Mutante Negasonica (Best.Name.Ever.) ma oh alla fine il film è Deadpool che dice le sue minchiate e affetta un sacco di gente, un amore perduto e uno stronzo con cui fare i conti, il resto è (una buona) mancia.
E ora, se seguite un po’ i siti, è tutto un proliferare di “il prossimo Wolverine sarà vietato ai minori” e “questo film sarà vitato” e “questo e quello, vietiamo tutto” che forse qualcuno s’è accorto che dopotutto non sono solo i bambini a portare il soldo. Vedremo cosa succederà, potrà essere una gran cosa ma può anche sfuggire di mano in tempo zero. Ocio.
IN BREVE: Minima spesa - ottima resa, Deadpool spacca culi a nastro e non ha paura di mostrarlo, ultraviolenza e comicità sboccata per il non-supereroe più scemo che esista.
Le meravigliose perculate ai vertici Fox non si contano. Buonissima la prima.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8





Oh, io ci ho provato. Ci ho provato davvero a seguire la Notte degli Oscar, il problema è che mi sono sintonizzato troppo presto: e al venticinquestimo collegamento con intervista incorporata a quella modella orribile e a quella fighetta del suo fotografo, il top dei top dicono, mi sono scesi i coglioni talmente tanto che ho mollato. Tenendo conto che prima della cerimonia vera e propria ci sarebbero volute altre due ore di red carpet e di commenti assurdi su vestiti di cui non mi fregava una ceppa ho deciso che, sai, anche no grazie.
Poi però il Ciclone Golia ha deciso di piazzarsi fuori dalla finestra di casa mia e di rompere i coglioni tutta la notte, per buona pace del mio gatto che già verso mezzanotte non sapeva più dove nascondersi, cosa rompere, chi graffiare e quale nuovo ululato tirare fuori.
Con l’inizio delle urla da possessione demoniaca (credo di aver intercettato almeno 4 parole chiare e distinte in mezzo a quei latrati di terrore) ho deciso che dormire non era proprio cosa e qua e là ho seguito la situazione Oscar sui social e, tra un paio di dormiveglia, in TV.
Quindi dai, considerazioni sparse:



- Che La Grande Scommessa si sia portato a casa solo un premio mi sembra un’eresia
- Che Steve Carell non abbia ricevuto neanche uno straccio di nomination è oltremodo una
bestemmia
- George Miller che a 70 anni suonati ti sbanca pure gli Oscar (anche se sono tutti quelli tecnici) action della madonna è una cosa che ti scalda il cuore e ti ridà un po’ di fiducia nel genere umano
- E' un peccato che il Maestro Morricone non abbia ricevuto un Oscar per uno dei suoi lavori più ispirati, ma è anche vero che un Morricone sottotono è comunque meglio della rumenta che gli gravita disperatamente attorno, e quindi si, uno-dieci-cento Oscar al Maestro, ci stanno tutti
- Che la regia e la fotografia finissero a Revenant era di un ovvio che di più non si può, ma sono entrambi meritatissimi, che visivamente non ce n’era per nessuno, neanche per Mad Max Fury Road (ed è tutto dire)
- Anche Inside Out era scontato che vincesse a man bassa come miglior lungometraggio animato vista la povertà della concorrenza, anche se di Quando c’era Marnie continuo a sentire parlare un gran bene, ma ehi, Disney la batti solo con Miyazaki in persona o niente, e quindi niente
- L’orso in platea è stata la trollata ultima, anche se quando l’ho visto ho seriamente temuto che Leo potesse non farcela, e qui non c’era Baudo a cercare di salvare gli aspiranti suicidi, nel caso
- Leo però ce l’ha fatta, e che cazzo se lo meritava dai. Magari se lo meritava di più per The Wolf of Wall Street, o per Django, o per The Departed (neanche nominato all’epoca, vergogna!), ma anche in Revenant ha dato una grandissima prova, quindi ci sta. E quel dito medio ci sta tutto. 

Grande Leo
Chiudo facendo polemica riguardo alla polemica: “Oscar so white” ha rotto il cazzo. L’ho trovata una pantomima già dall’inizio, con Spike Lee che rompe i coglioni ormai per sport e non si presenta per ritirare il premio alla carriera, anzi si offende e tira su un casino della madonna aizzando il razzismo dei colleghi afroamericani sull’Accademy (contro-razzismo? mah) dimenticandosi che sono dieci anni che non tira fuori un film decente, spalleggiato da una serie di indignati “illustri”, prima fra tutti una cagna d’attrice come Jada Pinkett Smith che, si vede, non si vergogna abbastanza di aver regalato al mondo interpretazioni cardine del cinema mondiale come quelle in Gotham (serie TV, e quindi non conta) e in Magic Mike 2 (troiata, e quindi dritta ai Razzie), o come il marito Will Smith, che gli brucia non essere stato nominato per Concussion.
Chris Rock, conduttore della serata, ha menato il torrone con sta cosa tutta la sera, ma non si è capito bene quale posizione avallasse tanto che la sua bella figura da paraculo se la porta a casa, come (molto probabile) l’ultima conduzione della sua carriera.
Che poi quando due anni prima Lupita Nyong'o, Steve McQueen e John Ridley hanno fatto filotto di oscar con 12 Anni Schiavo nessuno lo ricorda più? Qualche caucasico si è lamentato allora? O, visto che parliamo di “minoranze etniche”, Cuarón, Iñárritu e Lubezki sono tre anni che sbaragliano tutto e tutti nelle categorie Regia e Fotografia (ehm, due tra le più importanti) cosa facciamo, vogliamo montare su una protesta del cazzo anche contro i messicani?
Se come artisti siete ormai alla frutta non prendetevela con chi poi non vi nomina per un Oscar, ché se la finiste con questo patetico vittimismo e col vostro razzismo congenito magari avreste più tempo da dedicare alla qualità delle vostre performance, cari Spike “cazzeggiodalduemilaesei” Lee e famiglia Smith tutta.
Ma queste cose non si possono scrivere, perché poi passi automaticamente dalla parte del torto senza passare dal via, perché se sostieni che l’assegnazione dell’Oscar in teoria sarebbe meritocratica e non vincolata dal colore della pelle ti dicono che sei uno stronzo in malafede, perché se sei bianco e non ti lamenti per questi Oscar troppo bianchi sei un fottuto razzista in automatico.
Che brutta persona che devo essere.

IL MIO 2016 AL CINEMA – MARZO: BATMAN V SUPERMAN, MA POI MIGLIORA

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Aprile è arrivato, Marzo ha dato quello che aveva da dare (a parte Room, che me lo sono perso come un pirla, ma si recupererà) ed è giunto quindi il momento del consueto punto della situazione.
Oh, occhio, [SPOILER] un po’ ovunque alla 'cazzomannaggia:



Non è la prima né sarà l’ultima volta che vado al cinema con un certo genere di aspettative mutuate dalla visione di un trailer fuorviante per trovarmi davanti a tutt’altra cosa, ma capita raramente che una pellicola diversa da quella che mi aspetto si riveli decisamente migliore.
Zootropolis in questo mi ha fregato, ed è stata una bella sorpresa.
Partiamo subito dicendo che se non sei il mostro di Firenze o un mafioso che scioglie bambini nell’acido non puoi, proprio non puoi non aprire il cuore alla protagonista, che non è la volpe Nick come il primo trailer fellone induceva a pensare, ma la coniglietta Judy, e la storia segue lei fin dall’infanzia, dove ha modo di spiegarci che il mondo non ha mai visto la grossa piaga dell’umanità chiamata…ehm, uomo, ma il pianeta è popolato da animali antropomorfi, che si vestono, lavorano e finiscono nei casini come tutti noi.
La nostra Judy vuole diventare poliziotta nonostante le spieghino tutti che una coniglietta non sia proprio il soggetto giusto per il lavoro, ma lei se ne sbatte, tira dritto e in culo a tutti lo diventa davvero, venendo addirittura assegnata alla grande città di Zootropolis, enorme agglomerato urbano ben diverso dallo piccolo e rassicurante paesello natio di coltivatori di carote.
Ed è proprio in città che Judy farà la conoscenza di Nick, piccolo truffatore che tira a campare come tanti, e che diventerà controvoglia il partner perfetto nell’indagine ad alto rischio che la coinvolgerà in prima persona.
Ecco, Zootropolis sembra tutto tranne che un film per bambini: nonostante gli animali antropomorfi generino subito un certo appeal nei più piccoli, il film è a tutti gli effetti un poliziesco, e va a toccare argomenti decisamente insoliti per un prodotto Disney: primo su tutti il razzismo, sia tra razze (tutti diffidano delle volpi) sia tra carnivori ed erbivori ci si guarda con circospezione, che fidarsi è bene ma a non fidarsi magari si evita tipo di essere divorati.




La cosa che lascia positivamente spiazzati all’inizio è che Zootropolis non cerchi MAI la risata facile (tranne nella scena alla motorizzazione civile: cappottato dal ridere per direttissima, 10 minuti buoni di crampi allo stomaco), ma una volta entrato nel mood del poliziesco anni ’80 tutto fila liscio in maniera perfetta.
Animazione ottimamente realizzata (ormai Disney non ha più bisogno di Pixar, ora Disney è questa, facciamocene una ragione), regia a 4 mani molto capace (uno è il papà di Rapunzel, l’altro di Ralph Spaccatutto, scusate), personaggi iconici e gran colonna sonora, il film non si ricorderà forse per originalità ma di sicuro si tratta di un ottimo lavoro, del quale mi piacerebbe vedere un seguito in stile Arma Letale, che a questo punto ci starebbe tutto.
IN BREVE: Poliziesco con animali antropomorfi, non originalissimo ma veramente ben fatto. La scena coi bradipi me la ricorderò finché campo.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7 ½



Partivo già da una buona base: avendo adorato i primi due, apprezzato la divertente serie TV, non potevo non godermi questo terzo capitolo, e così infatti è stato.
Non per partito preso sia chiaro, ma perché il brand è stato gestito bene sin dall’inizio e con questo nuovo episodio si è mantenuta alta la qualità che ha sempre contraddistinto questa saga, chiudendo un po’ il cerchio del discorso iniziato nel 2008.
Si chiude il cerchio del cammino di Po verso la definitiva consacrazione del Guerriero Dragone, si chiude quello sul suo passato, sulla sua famiglia d’origine e su tutta una serie di piccole o grandi parentesi aperte dei film e nella serie TV che hanno contribuito negli anni a creare un universo perfettamente contestualizzato e coerente nei suoi stilemi.
Altro universo di animali antropomorfi come in Zootropolis, altri casini legati a vendette, onori infangati, dinastie perdute, profezie millenarie e tanto, tanto kung fu.
A differenza del primo episodio dove si puntava sulla risata a tutto campo, e al secondo dove l’azione la faceva da padrona in maniera spendida, questo terzo film fonde in maniera quasi magistrale i punti di forza dei due precedenti, creando un amalgama perfetto. 
Nonostante i vari cambi di regia ( il primo era del Mark Osborne de Il Piccolo Principe, Jennifer Yuh si è occupata del secondo e ritorna qui con l’italianissimo Alessandro Carloni) l’essenza del Panda Universe risulta intatta e strutturalmente solida, e spettacolo e continuità non possono che giovarne.
Fa piacere, grazie allo spunto narrativo del nemico tornato dal passato (e dalla morte), rivedere un personaggio bellissimo e indimenticato come Oogway, e vedere come il protagonista riscopre se stesso fra i suoi simili e porta a compimento il suo percorso di guerriero e leggenda, ma fa piacere ritrovare anche i comprimari classici (qui forse con meno minutaggio a favore che nei precedenti) come i 5 Cicloni e il padre adottivo di Po.



Tra i nuovi personaggi un cattivo meno carogna di quel bastardo di Lord Shen ma che ben si concilia con lo spirito del film, e soprattutto i panda superstiti amanti del cazzeggio e dello spaparanzo fine a se stesso che fungeranno da chiave di volta per la definitiva evoluzione di Po nel Guerriero Dragone, oltre che alla sua maturazione personale.
Il doppiaggio come sempre ottimo, nulla da segnalare.
Ah, e tutta quella minchiata tirata su ad hoc per menarla con la teoria pro-gender? Una minchiata, appunto, che Adinolfi commenta a cazzo di cane senza neanche averli visti, i film (#chiselosarebbemaiaspettato).
C’è solo da sperare, come da tradizione Dreamworks, che per mungere la vacca non tirino fuori altri film inutili e brutti come hanno fatto con L’Era Glaciale e Shrek, ma se ci fosse in ballo un’altra storia valida sarei il primo a non vedere l’ora.
IN BREVE: La perfetta conclusione della storia del Guerriero Dragone, tra azione e risate in un mix perfettamente bilanciato. Ad ora la serie Dreamworks perfetta, in attesa di Dragon Trainer 3
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 8 ½



E veniamo ora al punto cruciale del mese.
Ci sono talmente tante cose da dire su questo frullatone di pellicole che non so da dove cominciare.
Potrei cominciare dicendo che speravo di trovarmi davanti ad un altro film, un film riuscito magari, e così a mio modestissimo parere non è stato.
Non è stato perché stavolta Zack Snyder non ha ripetuto il miracolo di Man of Steel, che per quanto mi riguarda (lo so, sono una mosca bianca) era davvero un film interessante, ben costruito, completo, con i giusti tempi e spazi… ma il film è andato maluccio per i piani che avevano in Warner, e quindi via, ficchiamoci dentro Batman che in quanto a popolarità è quello che tira sempre di più.
E nonostante i fischi del mondo al momento della scelta dell’attore (me compreso), Ben Affleck ha tirato fuori un signor Batman, roccioso e potente, visivamente splendido, preoccupandosi pure di dare un’umanissima credibilità al suo alter ego fantoccio Bruce Wayne, ben lontano dal finto cazzone che vive di sole feste, auto di lusso e puttanoni da sbarco: il Wayne di Affleck è un uomo ferito, con 20 anni di lotta al crimine sulle spalle, con almeno un alleato perduto in battaglia (quel costume di Robin imbrattato da Joker ti sbatte in faccia Una Morte in Famiglia con una violenza assurda) ma con sotto due palle fumanti, perché costume o meno è lì a correre in aiuto della popolazione inerme durante l’attacco di Zod, a salvare dipendenti e bambini tra le macerie, incurante del pericolo.




E quando in mezzo a quella carneficina riconosce nel boyscout rossoblu la causa scatenante fa quello che ci si aspetta da lui: s’incazza, inizia a studiare il nemico e si prepara alla controffensiva.
Fino a qui il film mi ha incantato, giuro.
Poi purtroppo nelle due ore successive è successo quello che non doveva succedere, e quello che più temevo, e qui scusate ma vado di listone selvaggio:
- quello che doveva essere il sequel de L’Uomo d’Acciaioè diventato a tutti gli effetti il primo film di Batman del nuovo coeso DC Extended Universe, con un Superman burattino in mano a chiunque che si fa sballottare come un bambino scemo a destra e a manca da un…
- …villain ridicolo come il Lex Luthor di Jesse Eisenberg, fastidioso generatore random di parole farfugliate senza senso che si palleggia tra l’immagine del ragazzino problematico bisognoso di attenzioni allo squilibrato che s’impappina ogni due per tre bisognoso di cure pesanti




- Batman ha un signor costume, qualche bel giocattolo e quando affronta 20 tizi armati a mani nude è una gioia per gli occhi (meglio non s’era mai visto nulla, davvero), peccato che per tutto il film si metta ad accoppare la gente manco fosse il Punitore, che con il personaggio ci sta bene quanto un Uomo Ragno che spaccia crack davanti alle scuole
- Lois Lane si riconferma una rincoglionita totale con disperato bisogno di Super Badante sempre al seguito, quasi ottant’anni di vita editoriale e ci dobbiamo puppare ancora la Lois Lane che si ficca nei casini, che si fa rapire, che rimane intrappolata ovunque, ma anche basta!
- il gancio ai prossimi film è arrivato nel modo più becero mai visto: ok, le scene post credit (marchio di fabbrica Marvel) sono ormai abusate, ok, ma da quelle a piazzare a metà pellicola dei praticissimi LOGHI GIGANTI su un computer arrivati non si sa da dove (inventati da Luthor? per carità…) e filmatini scrausi sui prossimi eroi in arrivo è di una sottigliezza che neanche Hulk in una cristalleria, ed andando nello specifico:
- Cioè, Flash è un cacchio di zingaro. Parliamone. Ma anche no.
- il Jeremy Irons usato solo per piazzare la battutina sarcastica che non fa ridere nei momenti meno adatti è una roba da denuncia, più che altro perché si parla comunque sempre di Jeremy Irons, cazzo
- il motivo per cui Batman e Superman si legnano come richiede il titolo è di un pretestuoso che non ne parliamo, ma quello per il quale smettono di menarsi e per il quale diventano amici per la vita in tre secondi netti è qualcosa di ancora più assurdo. Cioè, “bastardo, hai distrutto Metropolis e contribuito alla morte di un migliaio di persone, ti devo fermare con qualsiasi mezzo” dice il pipistrello, “tu non ti comporti bene, non si marchiano i criminali, gne gne gne” risponde il palestrato in pigiama blu e mantello rosso, e… “Tua madre si chiama Martha? ANCHE LA MIA!!”, “NOOOOO GIURA!!!” = Amici per la vita!!!
Porca troia ma neanche in My Little Pony.

E non menatela con i sogni di Batman, le premonizioni, perché non è un maledetto precognitivo, è un uomo disturbato e…sulla base di un tuo sogno fai la pace con quello che ritieni l’essere più pericoloso del mondo con il quale ti stavi ammazzando solo due secondi prima? MASTIAMOCAZZOSCHERZANDO?!



- Doomsday…c’è qualcosa di sensato in tutta la questione Doomsday? Il frutto coatto dell'incesto fra il corpo surgelato di Zod e del sangue di Luthor dopo cottura a vapore? Ma che cazzo s’erano fumati gli sceneggiatori? Ma poi anche fosse, cosa mi rappresenta? Come è potuto succedere? Come ha potuto Luthor pianificare una roba simile, su che base? E soprattutto perché, con quale scopo, giustificandosi con “sono il cattivo, devo fare per contratto qualcosa di simile e sfornare un abominio”? #nowords
- Batman poi che da lupo solitario diventa il Nick Fury dell’Universo DC, con la pretesa di aver capito effettivamente qualcosa dai sogni assurdi che si è sparato per tutta la pellicola, è frutto dell'ennesima scusa campata per aria: “Uniamoci perché il mondo ha bisogno di noi” dice a Wonder Woman. Ancora, su che base? E comunque non è il tuo ruolo, tu sei Batman, ti fai i cazzi tuoi per legge! Ma niente, ormai il treno era deragliato…




La cosa irritante è che in mezzo a tutta questa serie di puttanate e scuse pretestuose prive di qualsiasi logica c’è anche del buono: tutta la prima parte che si riaggancia a MoS per esempio, lo studiarsi a distanza dei due, il personaggio di Wonder Woman che alla fine entra di piattone nello scontro e tiene scacco da sola a Doomsday mentre gli altri stanno in disparte a parlare di mammà, ma anche una Perry White tosto come pochi, la sopracitata scazzottata di Batman 20:1, le sequenze riprese direttamente da Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Miller (in questo Snyder è vero maestro visivo, Watchmen e 300 docet).
Ma Snyder è maestro anche nello sputtanarsi in due secondi, dichiarando che in origine Luthor doveva solo fare un cameo poi, accorgendosi che aveva effettivamente assunto un bravo attore (a scanso di equivoci, a me Jesse Eisenberg piace) gli ha fatto scrivere A RIPRESE IN CORSO un copione apposito, e infatti si è visto; o ancora attribuendo alla novel di Miller spunti colti solo da lui, col fatto che è evidente, alla luce delle dichiarazioni, che lui quella novel non l’ha mai letta.
Il vero problema di Batman v Superman - Dawn of Justice sta nel fatto che in 2 ore e mezza (tre nell’edizione estesa voluta da Snyder in uscita tra qualche mese in home video) è che si è voluto infilarci dentro almeno tre film, accavallando storyline a cazzo di cane e ingarbugliando il tutto togliendo spazio a sequenze che potevano/dovevano essere trattate con più enfasi e soprattutto con più chiarezza.
Abbiamo quindi il primo film del nuovo Batman, ma anche il seguito (più o meno) de L’Uomo d’Acciaio con l’ingresso di Lex Luthor, abbiamo lo scontro fra i due eroi del titolo, la battaglia a tre contro Doomsday, e di fatto il preludio a Justice League, che tanto per correre sempre dietro alla Marvel partirà subito con un film in 2 parti, come il prossimo Avengers.
Cioè troppa, troppa, TROPPA roba!
Io ci speravo tanto in questo film, lo ammetto, e dover ripiombare alla dura realtà è stato uno schiaffo forte.
Non sono un Marvel maniaco fondamentalista, ho letto fumetti Marvel per anni (ma anche Batman e un sacco di roba Vertigo) e questo non mi ha impedito di schifare robaccia come Iron Man 3 o trovare anche solo passabile il primo film di Cap (il mio eroe preferito di sempre), o amare alla follia la trilogia di Nolan ed esaltarmi con L’Uomo d’Acciaio.




Non è questione di essere fan o meno di un personaggio o del fumetto d’origine, è questione di essere obiettivi: ed obiettivamente Batman v Superman - Dawn of Justiceè un film troppo carico, confusionario e frettoloso, che con una sola pellicola cerca disperatamente di recuperare pubblico per stare al passo con i Marvel Studios e, invece di puntare sulla qualità dei singoli (personaggi e film), si butta nella mischia senza preoccuparsi di fare le cose per bene, facendo emergere una preoccupante mancanza di fondamenta, perché per creare un universo cinematografico coeso non basta piazzarci un nome, ma serve lavorare sui protagonisti, sul progetto in generale, per non togliere quel sense of wonder nel momento in cui finalmente si uniranno, rendendo il tutto davvero epico.
E la cosa peggiore è che, conclusa la visione, il mio personalissimo interesse per i prossimi film di questo DC Extended Universe è crollato come un castello di carte: un film su Wonder Woman, un film su Flash con QUEL Flash, un film su Aquaman non mi interessano minimamente, non mi è rimasta la voglia e l'aspettativa per un prosieguo che arriverà; vedrò sicuramente quello di Batman quando uscirà perché…beh, è Batman, e quello sulla Justice League ok, ma mi fermo lì.
Detto sinceramente, se questo è lo scenario cinematografico DC che ci si prospetta nei prossimi anni, mi tengo volentieri tutta la vita il The Flashtelevisivo per ragazzini.
Ed è tutto dire.
IN BREVE: Pretestuosa orgia di contenuti, visivamente splendida ma troppo carica di roba e priva di sostanza.
Pochi guizzi e buone idee (riciclate) non ne fanno il film che avrebbe dovuto essere.
Non merita la merda che gli hanno lanciato contro, ma nemmeno più attenzione del dovuto.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 6

IL MIO 2016 AL CINEMA - APRILE: DOLCE RECUPERARE

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Mese di grandi recuperi corredato da una stronzatona divertente, direi che poteva andare peggio.
Come al solito,
[SPOILER] a pioggia.

Io, di base, sono un grandissimo appassionato di film d’inchiesta.
In realtà amo un po’ tutto il cinema, spazio dalla fantascienza al procedurale, dalla commedia al thriller, dal supereroistico al dramma, ma solitamente i film d’inchiesta, quando basati e possibilmente molto attinenti a fatti realmente accaduti, accendono in me qualcosa di forte, come se ampliassero il mio spettro emotivo.
Sarà per questo che ho adorato
La Grande Scommessa, che amo alla follia JFKdi Oliver Stone e praticamente qualsiasi cosa partorita dalla mente di quel simpatico ciccione di Michael Moore.
Spotlight è un team investigativo di quattro persone in forze al Boston Globe specializzato in inchieste a lungo termine, alle prese con l’indagine più importante della sua storia.
La notizia dell’abuso di un bambino da parte di un prete sarà la scintilla che riuscirà ad accendere una questione tragicamente più ampia, arrivando a scoprire un mondo sotterraneo di molestie e violenze su minori che coinvolgerà più di 70 sacerdoti nella sola Boston e portando alla luce il coinvolgimento e la tacita complicità delle alte sfere del clero, delle autorità e dei media, che porterà la squadra a vincere nel 2003 il Premio Pulitzer per il pubblico servizio.
Quello che serpeggia per tutto il film è un clima d’incertezza e curiosità, un clima malato nel quale i vari protagonisti conducono un’indagine delicatissima nel cuore pulsante del mondo ecclesiastico americano.
La semplicità e la didascalità delle immagini si contrappone continuamente (e volutamente) al dolore immenso che scaturisce delle dichiarazioni delle vittime e dai continui passi avanti nell’indagine, convogliando perfettamente l’indignazione dello spettatore e ponendolo davanti alla questione in maniera quasi giornalistica.
In certi momenti, sembra davvero di avere davanti agli occhi un documentario, talmente risultano curati lo stile espositivo e la concatenazione degli eventi, studiati a tavolino per accompagnare lo spettatore passo dopo passo nella vicenda senza sensazionalismi ed evitando un’altrimenti facile spettacolarizzazione del dramma.

Il cast è di prim’ordine, Mark Ruffalo e Michael Keaton spiccano su tutti, ma anche Rachel McAdams e John Slattery se la cavano egregiamente, instillando credibilità al team e alle vicende che ruotano loro attorno. Da non dimenticare un ottimo Stanley Tucci, un po’ incolore invece Liev Shreiber.
IL CASO SPOTLIGHT deve moltissimo alla sintonia tra i membri del cast e all’approccio quasi documentaristico della narrazione, oltre al coraggio nel mettere in scena una pagina di storia moderna tanto delicata, motivi che gli hanno valso due tra gli Oscar più ambiti (Miglior Film e Miglior Sceneggiatura Originale 2016), certamente meritatissimi.
Strano che in Italia sia passato un po’ in sordina… #chissàperchè

IN BREVE: Film denuncia dal tratto documentaristico, appassionante e diretto, su una delle questioni più spinose della nostra attualità. Ottimi interpreti ben diretti. Per non dimenticare.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:8



Montagne russe. Un fottuto giro sulle montagne russe. Anzi, un divertente giro di un’ora e mezza onestissima sulle montagne russe più fuori di melone che esistano, che tiene incollati alla poltrona dall’inizio alla fine con una storia semplicina-sempliciò, e che si permette di tirar fuori addirittura un paio di plot twist non male in mezzo a quella centrifuga di sparatorie, acrobazie, inseguimenti e gente morta malissimo.
I limiti di un’operazione del genere sono evidentissimi fin da subito: parlare di film è quantomeno pretestuoso, HARDCORE! è un giochetto che tira la corda più che può ma che ha il pregio di non stancare, a patto di essere fan di vecchia data dei vari
COD, Medal of Honor e compagnia sparante, ma anche di un certo cinema casinista e particolarmente cazzone tipico degli anni ’80, che si sposa perfettamente con le pellicole più sceme e divertenti dei vari Stallone/Schwarzenegger/Willis/VanDamme e amici di carneficina.
Storia semplicina-sempliciò, dicevamo: il protagonista viene massacrato e leggermente accoppato nei titoli di testa più malati visti negli ultimi anni (ciao
Deadpool), che pure Vigo il carpatico dopo essere stato avvelenato, pugnalato, impalato, impiccato, sbudellato, affogato e squartato era messo meglio, ma ehi, qui subentra la moglie, che in quanto modella/ingegnere cibernetico (#credibilissssimaproprio) lo ricostruisce, gli infila una batteria nel petto, un paio di arti robotici e vai amo’, accoppali tutti!

Ovviamente la moglie si fa rapire in tempo zero e lui per ritrovarla finisce per sterminare una roba tipo la popolazione del Belgio. Un bel massacro in prima persona di un’ora e mezza, finale da vero duro ‘80s incluso nel prezzo.
Del protagonista muto non si può parlare, essendo nella teoria lo spettatore stesso (con molta fantasia) a vestirne i panni, e oltre alla moglie Jennifer Lawrence tarocca e alle centinaia di morti ammazzati senza nome si può effettivamente parlare di cast risicato: il cattivo di turno è proprio uno stronzo bello sadico e dotato pure di poteri ESP (oggi si porta), il compagno di battaglia è un simpatico e poliedrico Sharlto Coplay (
A-Team) impegnato a mettere in mostra tutta la sua follia, e resta ancora da capire quanto debba essere alla canna del gas il buon Tim Roth per aver accettato di partecipare a questa fiera del LOL.
Nel dubbio uno saggio si porta i travelgum al cinema, che sai mai, invece l’inizio lento (5 minuti bastano? bastano) dà all’occhio la possibilità di abituarsi e di riuscire a non rivedere la cena di Pasqua, ma va anche detto che negli ultimi 10 anni di FPS ne ho mangiati a vagonate, sarà anche per questo che sono riuscito a digerire HARDCORE!, in tutti i sensi, ivi comprese tutte le “citazioni” inserite a calci tratte dal campionario basic di un
COD laqualunque, dalla sequenza col cecchino alla sparatoria dal veicolo in movimento, dai numeri da parkour alle cadute da altezze impossibili, dalle schermate rosse oddiostopermorire al lancio di coltelli, e così via.

Ecco, c’è da dire anche che più che la nuova frontiera del cinema siamo più dalle parti della prossima frontiera del gaming, tenendo conto del fenomeno-fuffa VR in prevedibile esplosione a breve nel settore videoludico: durante la visione del film in sala il mio pensiero saltava costantemente da “con un visore VR chissà che esperienza sarebbe!” a “datemi un pad!” ma non credo riuscirò mai a provare l’esperienza: ho troppa, troppa paura di rivedere la cena di Pasqua.
 
IN BREVE: Montagne russe in prima persona, tanti morti ammazzati, situazioni da FPS a carrettate e divertimento ignorante anni ’80. Imperdibile per videogiocatori navigati, travelgum per tutti gli altri.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:7




Degrado. La prima parola che ti viene in mente guardando LO GUARDAVANO JEEG ROBOT è “degrado”.
Degrado di una società, degrado dell’individuo, degrado di un quartiere, degrado fisico e psicologico, del protagonista e di tutti i personaggi che gli ruotano attorno, che intaccano la sua scorza, che lo spingono al cambiamento, che lo rendono quello che non vuole (e che non sa ancora di) essere: un eroe.
L’evoluzione di un eroe reticente che viene dai bassifondi, da un mondo sporco e malato costellato di situazioni così freddamente attuali da sembrare irreali, ma raccontate talmente bene che anche l’inserimento di elementi fantastici finisce per risultare realistico, credibile, come mai (e dico mai) succede nei più ricchi e monumentali film di genere americani, Marvel Movies su tutti.
E non è per sputare senza ritegno nel piatto dove ho mangiato e mangio tuttora (- 4 giorni a Civil War!!), non è per leccare il culo ad un cinema italiano del quale sono notoriamente un solido detrattore, ma la realtà è lì che parla da sola.
La realtà è LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT, e LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT è un fottuto spettacolo.
E’ la pellicola che noi italiani, noi fumettari degenerati, noi spettatori troppo americanizzati stavamo aspettando da una vita, e che pensavamo di non vedere mai.
E invece bastava un regista capace come Gabriele Mainetti (alla sua prima esperienza cinematografica dopo dieci anni di gavetta come regista di corti) e un cast di validi talenti per confezionare un gioiellino di cui sentiremo parlare a lungo, e che diventerà da ora in avanti il metro di paragone per la produzione di genere nel nostro paese. E non solo.
Perché il successo di un film fantastico prodotto nel nostro paese e realizzato completamente da un cast tecnico/artistico italiano apre nominalmente tutti gli sbocchi possibili e immaginabili per il nostro cinema, perché torni ai fasti di una volta senza puntare per forza su panettoni che scoreggiano e gente che si piange addosso.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT ha dimostrato chiaramente che siamo in grado anche noi di realizzare qualcosa di grande, ma bisogna trovare gente che investa nel nostro cinema, nei nostri giovani registi e attori.
Attori come Claudio Santamaria che mette su 20 kg di massa per la parte (da bravo Christian Bale de noantri) e regala un personaggio scoglionato e disilluso, vero, credibile, dipingendone un’evoluzione da nullità ad eroe vivissima, palpabile, toccante; la coprotagonista Ilenia Pastorelli al suo primo film passa dal Grande Fratello direttamente al David di Donatello con un’interpretazione sorprendente e convincente in grado di commuovere e suscitare tenerezza e semplicità al primo sguardo, un’autentica rivelazione.

Ma come la regola aurea vuole, la vera forza del film sta sempre in un villain all’altezza, un rivale col quale non si scherza, un nemico iconico: in questo il bravissimo Luca Marinelli mangia decisamente in testa a tutti. Il suo Zingaro, criminale borgataro da due soldi che ambisce ad un posto fra i grandi, ossessionato dal desiderio di popolarità, dal bisogno di sentirsi importante, è un meraviglioso e brutale ritratto dell’Italia dei giorni nostri, il piccolo nessuno traviato dallo squallido mondo dello spettacolo e malato di protagonismo che con la sua ferocia e la sua umanità corrotta funge da motore all’intera vicenda, permettendo al nostro eroe di diventare tale.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT è un film che vince e grazie ai suoi protagonisti delineati perfettamente e alla sua ambientazione urbana, una Roma di vicoli e zone malfamate che via via si arricchisce di bellezza e situazioni e colori, arrivando ad esplodere nell’agrodolce finale.
Non un film supereroistico classico, questo è certo, complice anche un budget neanche lontanamente paragonabile agli standard hollywoodiani, ma una pellicola sporca e vera, quasi realistica nella sua potenza d’immagine e realizzativa, che commuove, conquista e vince.
IN BREVE: Un film vero, vibrante, intenso e senza fronzoli, diretto benissimo e recitato da dio. La rinascita del cinema fantastico italiano: Daje Jeeg! Và e ammazzali tutti! 

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:9

CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR - LA RECENSIONE

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Ho dovuto lottare con le unghie e con i denti per mesi, ma ce l’ho fatta: evitando gli spoiler come un oro olimpionico di slalom, ieri sera sono riuscito a vedermi CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR.
E? E se prima la mia trimurti di film Marvel preferiti era
The Winter Soldier/Iron Man/Guardianidella Galassia ora a malincuore dovrò toglierne uno, visto che questo CIVIL WAR non solo entra in alta classifica di colpo ma si piazza di prepotenza al primo posto.

Ci sono talmente tante cose da dire, talmente tante cose che succedono pronti-via, talmente tanti momenti da pelle d’oca e da sorriso delle grandi occasioni che uno, mettiamo io, al solo ripensarci ancora si emoziona.
CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR è un film che ti entra nelle ossa con la sua azione a tutto campo, e subdolamente nel cervello con una serie di falsi indizi e di ribaltamenti di fronte, tanti da infilarti in testa il tarlo del dubbio e una certa qual dose di rifiuto per le scelte attuate principalmente dai due generali in lotta, due compagni d’armi che a conti fatti spaccano in due il gruppo di cui erano i leader, con tutte le conseguenze del caso.
Nel corso dell’ennesima azione sul campo, una caccia all’uomo che Cap e i nuovi Avengers stanno svolgendo in Nigeria, avviene l’ennesimo disastro internazionale: un’esplosione incontrollata fa strage di civili in un palazzo ed è la classica goccia che fa traboccare un vaso già colmo.
I governi di tutto il mondo non possono più tollerare azioni paramilitari di una squadra che agisce privatamente senza controlli e al di sopra delle regole, perciò vengono stipulati gli Accordi di Sokovia, accordi nei quali si chiede ai superumani di scegliere se operare sotto il controllo delle Nazioni Unite e quindi di regolamentarsi oppure di cessare qualsiasi attività, pena l’arresto.
La spaccatura all’interno del team è netta: chi mosso dal senso di colpa o da rigida impostazione militare sceglie di firmare, ma chi non vede nel controllo esterno una soluzione bensì un possibile minaccia si tira indietro.
Tutto resta in questa situazione d’incertezza finché un devastante attentato alle Nazioni Unite pone fine alle trattative in modo drastico, passando direttamente dalle parole ai fatti. La guerra ha inizio.
Oltre a riportare sullo schermo alcuni dei personaggi secondari più riusciti come Visione e Wanda, Ant-Man e il Soldato d’Inverno, la guerra serve anche come occasione per introdurre elementi nuovi, forze fresche sia per la battaglia in atto quanto per il Marvel Cinematic Universe, che si arricchisce così di due personaggi importantissimi: Pantera Nera e, soprattutto, Spider-Man.

Le modalità con le quali sono stati inseriti sono a dir poco perfette, sembra davvero un piano studiato e messo a punto da tempo da parte di Kevin Feige e dei vari produttori: ognuno sembra essere esattamente dove dovrebbe essere, con le sue motivazioni, i suoi scopi, con la sua specifica funzione e soprattutto studiato in una prospettiva futura da presenza fissa in quel gigantesco pantheon che è il MCU.
Per la serie,
Batman v Superman e i suoi loghi giganti sul computer facevano già pena prima, ora non parliamone.
Nel corso del film troviamo diverse sequenze action incredibilmente ben strutturate e coreografate, biglietto da visita dei Fratelli Russo (ai quali ricordiamo è stato affidato il terzo Avengerse che, diciamocelo, di gavetta ne hanno fatta), sequenze degne del miglior action moderno, combinate con una storia complessa tra politica e guerra, tra ideali e vendetta, elementi miscelati in maniera impeccabile.

Durante tutti i 147 minuti non c’è un solo momento d’incertezza, di noia, in un film peraltro con un tasso di comicità ai minimi termini: a parte qualche battuta (la maggior parte delle quali per bocca di Falcon, vero elemento comico di rottura) siamo decisamente dalle parti del precedente
Captain America: The Winter Soldier, ossia un action movie dall’anima solida improntato sull’azione a tutto campo e senza fronzoli.
Non sarà sanguinolento come un Deadpool, ma anche in questo caso i Marvel Studios (proprietà Disney, ricordiamolo) non si fanno problemi con morti ammazzati, torture e violenza esplicita, il che contribuisce a dare al film quell’aura di drammaticità di cui aveva bisogno, allontanandolo decisamente dalle classiche pellicole action sceme fine a se stesse (e dagli stessi Marvel movies più cazzoni dal rating R), inscrivendola al contempo in maniera perfetta all’interno dello scenario globale del MCU.
Durante la battaglia dell’aeroporto, Spidey cita esplicitamente (nella teoria e nella pratica)
L’Impero Colpisce Ancora, e mai paragone fu più azzeccato: CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR è L’Impero Colpisce Ancora del Marvel Cinematic Universe, è la crepa che ha raggiunto il culmine e diventa frattura, è il momento più buio, quello in cui tutto sembra andare a puttane, il momento di massima instabilità per nostri eroi.
Si sa, quando le cose vanno male c’è soltanto da rimboccarsi le maniche e risalire la china con le unghie (di vibranio) e con i denti, ma prima del trionfo del bene sul male c’è un momento in cui gli eroi prendono la batosta, c’è il momento “l’Impero vi fa il culo, sporchi ribelli” che lascia i buoni a leccarsi le ferite e i cattivi a godersela.
Il fatto è che qui non ci sono “cattivi”, certo c’è un villain nell’ombra che dà fuoco alla miccia, ma i botti veri e propri li fanno esplodere due fazioni di “buoni”, facendosi saltare in aria a vicenda guidati da incomprensioni e ideologie diverse, da vecchi e nuovi rancori e soprattutto dal desiderio di vendetta, una vendetta trasversale che tocca tutti in modi diversi, rendendo ancora più sottile la linea rossa fra scelte sbagliate e giuste cause.
Film di testa e di pancia che può dividere per ideologia ma non per consensi: qualitativamente, CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR è il picco più alto raggiunto dai Marvel Studios in 8 anni, un film sorretto da una pianificazione solida e da uno staff tecnico ed artistico affinato negli anni, una storia bellissima e dolorosa che gioca perfettamente con i personaggi a sua disposizione e prepara il terreno a una reunion “cazzo si!” nel prossimo doppio appuntamento con
Avengers 3.
IN BREVE: Emozionante, adrenalinico, sofferto, esaltante, maestoso capitolo del MCU, ad oggi la miglior pellicola della Casa delle Idee. Uscire dal cinema con l’emozione stampata negli occhi. Siamo dalle parti della perfezione.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:9 ½

AVVISO AI NAVIGANTI, DA QUI IN AVANTI[SPOILER]!!!
Mi sono sforzato nel realizzare una recensione priva di spoiler, il film giustamente è uscito ieri e chissà quanti dovranno ancora vederlo, ma ci sono cose che chi ha già dato non può tenersi dentro quindi via alla carrellata delle mie PERSONALISSIME CONSIDERAZIONI:
- Non è tanto essere di parte, ma obiettivamente Tony Stark è un pezzo di merda: prima, nonostante tutti gli dicano di non farlo, lui se ne sbatte e crea Ultron, col suo bel contorno di casini e morti che gli pendono sulla coscienza. Poi, sentendosi in colpa, contribuisce a stilare e firma gli Accordi di Sokovia, dando inizio ad una guerra fratricida che spaccherà in due gli Avengers. Crisi globali, morti ammazzati, amicizie distrutte e gruppi frantumati perché non è semplicemente in grado di prendere mai la decisione giusta. Complimenti Tony.
- Non contento cosa fa? Trascina in una guerra un ragazzino di 15 anni rischiando di farlo ammazzare, comprandolo con un costume nuovo di zecca e allettandolo coi soldi che potrebbe investire su di lui.
Un eroe proprio.
- L’assenza di Nick Fury l’ho trovata ingiustificata, e la mancanza l’ho sentita. Rivedere Occhio di Falco invece è sempre un piacere.

- Pantera Nera è uno spettacolo in combattimento, ma senza maschera non trasmette la regalità propria del personaggio; va anche detto che si trova improvvisamente fra le mani l’assassinio del padre e l’onere di diventare re, ed è un attimo consumato dal desiderio di vendetta. Nel primo finale post titoli sembra infatti molto più autoritario, probabilmente più conscio del ruolo dopo gli eventi burrascosi con gli Avengers, e di sicuro ci sarà più spazio per esplorare questa tematica e il peso della sovranità che il suo ruolo comporta nel suo film personale, atteso per il 2018.
- Ant-Man è favoloso, meno cazzone e più concreto, la sorpresona che riserva a tutti nella battaglia dell’aeroporto magari è abbastanza telefonata, ma quando succede davvero e moltiplica le sue dimensioni diventando Giant-Man è comunque uno dei momenti più emozionanti del film. Unico neo: vederlo muoversi così lentamente fa venire alla mente il genere tokusatsu, sicuramente sarà un effetto voluto ma personalmente l’ho trovato straniante, spero venga rivisto per il prossimo
Ant-Man e Wasp (2018)
- La Vedova Nera che non sta né di qua né di là è molto nel personaggio e, a differenza dei due
Avengers, qui la russa mena come un fabbro (come accaduto anche in The Winter Soldier) ed è protagonista di alcune delle coreografie più riuscite, rendendola la superspia che sarebbe sempre dovuta essere.
I Fratelli Russo continuano ad essere gli unici a riuscire a tirare fuori il 100% dal personaggio.
- Wanda è un personaggio semplificato ma comunque bellissimo: la più potente degli Avengers risulta anche la più incontrollabile, ed è lì che sta il bello del personaggio. Il suo essere una novellina, il suo interesse ricambiato per Visione, la realizzazione dei suoi poteri “da strega”, e alla fine quel suo sguardo terrificante una volta ingabbiata, che fa tornare alla mente del lettore terribili e meravigliosi ricordi (Vendicatori Divisi? House of M?) Spet-ta-co-lo!
- Spider-Man è un ottimo Spider-Man e un Peter Parker in divenire sfigatello ma simpatico, è facile affezionarsi subito a lui e sinceramente non vedo l’ora che arrivi il suo film da solista.
Per una volta niente Zio Ben (basta, per dio!), Zia May è stranamente giovanissima e lui pure, ma il ragazzo ha carisma da vendere, carisma che non viene meno anche una volta indossato il costume.
Il ragnetto è forte e dà subito filo da torcere a tutti, combattendo come un esperto e mettendo nei casini il #TeamCap in più occasioni. Di sicuro è la presentazione del personaggio più snella e azzeccata tra quelle delle precedenti incarnazioni, una vera bomba. Notevole anche la rivisitazione del costume classico, non eccelso ma funzionale e d’impatto, e poi si sa, è stato fatto decisamente di peggio, non lamentiamoci.
- L’errore di calcolo di Visione nel centrare in pieno quel povero cristo di James Rhodes dimostra quanto il sintezoide sia imperfetto, e questo mi sta facendo ben sperare per il personaggio, capace di sbagliare proprio come gli esseri umani. La creatura Visione sta forse diventando più umano? L’amore per Wanda e la disperazione per averla persa lo sta cambiando a tal punto? Wanda ha forse dato involontariamente inizio alla sua evoluzione? Tutti aspetti da sviscerare nei prossimi film, sperando che con tutta la carne al fuoco in programma si ricordino di farlo. In ogni caso personaggio sempre più interessante.
- Ma quanto cazzo è invecchiato Don Cheadle? Quando l’ho visto a inizio film ho detto “ok, questo lo fanno crepare, fra due anni sembrerà suo nonno”.
- La battaglia a 3 nel bunker in siberia è una roba che ti strappa il cuore: vedere quest’alleanza ritrovata fra Cap e Tony, e vedere come la loro amicizia va definitivamente in frantumi, è una cosa che fa male.
In quel momento tutti cedono sotto il peso dei propri errori: Cap confessa di sapere da tempo che il Soldato d’Inverno aveva ucciso i genitori di Tony ma aveva taciuto quel segreto per non destabilizzare il gruppo, a maggior ragione perché sapeva che quel delitto era stato commesso non volontariamente; Tony, di suo, manda affanculo ogni freno e accecato dal (legittimissimo) desiderio di vendetta cerca di ammazzare Bucky, diventando a tutti gli effetti come Zemo, che li aveva condotti lì per consumare la sua vendetta.
- Nel mezzo del combattimento, Bucky dice una cosa a Tony che sul momento sembra un voler stuzzicare l’avversario, ma se ci rifletti rende il Soldato d’Inverno un personaggio ancora più malinconico e perduto. “Te li ricordi, almeno?” gli chiede Tony riferendosi ai genitori.
“Non dimentico nessuno” gli risponde lui.
Il Soldato d’Inverno concretizza in tre parole tutta la disperazione che porta dentro, un uomo che ricorda ogni nefandezza compiuta e che deve portarne il peso, nonostante non ne fosse responsabile.
Terribile e struggente.
- Realizzo solo ora che prima di rivedere in azione Cap e gli altri toccherà aspettare almeno due anni.
Tutto ciò mi rende davvero molto, molto triste.


THE BOY - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Partiamo con un presupposto da giovane vecchio disilluso? Bene, l’horror è morto da 20 anni. Punto.
Del genere simbolo (assieme alla commedia e alla fantascienza) degli anni 80, e che proprio in quel periodo ha vissuto il periodo di massima esplosione qualitativa, arrancando vistosamente già nel decennio successivo, non è rimasto davvero niente.
O almeno ben poco che richieda lo sforzo di essere salvato.
THE BOY, per chi ha avuto la sfiga di vederselo al cinema (eccolo!), non fa purtroppo parte di questa cerchia ristretta di pellicole elette.
A una giovane americana viene affidato il compito di fare da tata al figlio di una coppia inglese, una coppia di vecchi chiaramente rincoglioniti dato che il bambino non è un bambino ma una brutta bambola di porcellana fatta malissimo.
L’unica cosa da fare è seguire 10 semplici regole e non sgarrare, perché anche le bambole, nel loro piccolo, s’incazzano. Seguiranno ovviamente problemi.


Lanciato dal solito trailer furbo e carogna, il film di William Brent Bell si presenta come un horror soprannaturale con elementi esoterici, e se fosse diretto con un cacchio di buonsenso e non seguisse un copione stupido alle fondamenta avrebbe anche potuto giocarsela e restare nella media, ma a conti fatti di questo ennesimo capolavoro dell’horROTFL si fatica a salvare qualcosa.
L’ambientazione, la classica magione antica tagliata fuori dal mondo in mezzo alla campagna, dovrebbe evocare inquietudine, non fosse che se per gli esterni è stato utilizzato il bellissimo castello di Craigdarroch, gli interni sono qualcosa di palesemente finto e posticcio, una roba di livello televisivo talmente anni 90 che ti ammazza tutta l’atmosfera, il che in un horror è già grave di per sé.
La colonna sonora e gli effetti sonori non aiutano certo la pellicola ad uscire dal piattume generale in cui s’impantana poco dopo l’inizio, né lo fa un cast al minimo sindacale dove gli unici volti noti sono Lauren Cohan (The Walking Dead) e Rupert Evans (per chi se lo ricorda in Hellboy e Agora) e una serie di macchiette velocemente dimenticabili.


La regia di William Brent Bell (Stay Alive, i precedenti in effetti non erano buoni) è di un piattume televisivo che lévati, il regista non solo è chiaramente incapace di gestire i tempi della suspance, ma sembra fare i salti mortali per dimostrare al mondo di essere il mago dei tempi morti; incredibilmente, però, c'è di peggio, perchè il vero fondo del barile lo raschia la sceneggiatura: una storia noiosamente vuota e dai plot twist totalmente telefonati (merito della scoglionatissima sceneggiatrice Stacey Menear) che sotterra totalmente il film in un tionfo di vabbè e sbadigli.
I precedenti illustri in fatto di bambole indemoniate nel cinema horror non mancano di certo, basta pensare a Dolls, al primo Bambola Assassina, a Puppet Master o a Magic, ma THE BOY non si sbatte minimamente nel cercare di raccontare qualcosa di nuovo in termini di linguaggio, cosa che idealmente sarebbe anche lecito aspettarsi da un film che si affaccia in un territorio quasi completamente esplorato.
Ma no, THE BOY non ci prova e la butta sul semplice, confeziona una storiella prevedibile realizzata alla cazzomannaggia, c’infila un personaggio televisivo conosciuto e qualche scopiazzatura qua e là, sbatte le uniche sequenze degne di questo nome in un trailer ad hoc e buona lì, è stato bello, fanno 8 euro più prevendita, grazie.
E un’ora e mezza di vita buttate nel cesso.
Bell’affare.



IN BREVE: La sagra della noia e del già visto, recitato male, diretto peggio e scritto dimmerda.
Al confronto Dead Silence era Kubrick.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:4 ½

Appunto personale: vedere gli horror al cinema è ormai impossibile. La fauna di “spettatori” del genere è ormai composta da animali non pensanti e fighette intollerabili, che pur di non ammettere che si cagano addosso passano TUTTO il film a far casino, parlare con tutti quelli attorno, ridere quando non c’è da ridere e in generale rompere i coglioni a chi il film, avendo pagato, vorrebbe anche guardarselo come si deve.
Ho assistito a proiezioni piene di bambini più silenziose. Giuro.

THE NICE GUYS - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Full 70's Style!!!
Se sei un assiduo spettatore, capitano quei momenti che attendi un film così tanto e quando esce non hai il tempo materiale per andarlo a vedere: ecco spiegato in due righe il perché non avete ancora letto su questi lidi una recensione di X-MEN APOCALYPSE.
Quello che ho trovato il tempo di vedere invece è l'ultimo film di quel cagnaccio di Shane Black, e finalmente posso dire la mia: THE NICE GUYS è un gran bel film.
Non un capolavoro, non una sega a due mani come si sente dire e scrivere ovunque da tutti quegli hipster che oggi stanno rivalutando il buddy cop movie anni 80 (buongiorno, eh!) solo perché si rendono conto di quanto la situazione cinematografica attuale sia drammatica, ma di sicuro è un gran bel film.
Ovunque sentirete dire che è il nuovo film del regista di
Iron Man 3: per quanto sia vero,  sarebbe più giusto e rispettoso presentarlo come “da quel grand’uomo che ha sceneggiato i primi due Arma Letalee L’Ultimo Boy Scout e che ha diretto quella bomba di Kiss Kiss Bang Bang” perché il codice genetico è quello (per quanto il malriuscito Iron Man 3 c’abbia visibilmente spiluccato nel piatto), il tono, il mood, pure.

Ma soprattutto, con i mostri sacri appena citati, condivide una sceneggiatura fresca e dinamica realizzata splendidamente, che magari non darà nulla di nuovo al genere d’appartenenza, ma che lo mette sul piatto nel migliore dei modi, confezionando una storia all’apparenza semplice ma piena di quei meravigliosi plot twist che stravolgono l’evolversi degli eventi ingigantendone l’area d’azione per arrivare belli carichi al finale.
Holland March e Jackson Healy sono i due protagonisti tipici di un buddy cop movie anni 80, due individui qualunque che da soli combinano poco e campano male, e che una volta che s'incontrano passano tutto il tempo a tirarsi battutacce e a sopravvivere a una convivenza forzata che, ovviamente, alla fine darà i suoi frutti.
Uno è un investigatore privato simpatico e alcolizzato (dove l’ho già sentita questa?...), l’altro un Mr. Wolf che risolve problemi in maniera molto poco etica ma efficace, e assieme alla figlia di March si trovano invischiati in un caso di persona scomparsa che diventa un’indagine su un omicidio, e così via in un’escalation di intrighi e coperture, di false piste, inseguimenti e sparatorie col sorriso delle grandi occasioni.
Vi si dice solo una cosa: Uccelli Morti

La coppia Russel Crow gigionissimo panzone e Ryan Gosling simpatico minchione alcolizzato funziona alla grande, l’intesa c’è e si vede, e la sacra legge non scritta dell’Hollywood Buddy Cop Movie dice che quando hai una sceneggiatura che poggia le basi su una coppia di protagonisti che funzionano e la elevano di qualità, con dialoghi ben scritti e scambi di battute al fulmicotone, tu il film lo porti a casa. E infatti.
Attorno ai protagonisti ballano anche una bravissima ragazzina (Angourie Rice, ne sentiremo ancora parlare), un’irritante Margaret Qualley, una sempre brava Kim Basinger e LOLLONE per il ruolo di Matt
White Collar Bomer.
Già pronta per un eventuale film sull'Ispettore Gadget
Una Los Angeles anni 70 fa da sfondo alle disavventure dei due disperati protagonisti, con un corredo di musica dell’epoca che già da sola vince tutto.
Tornando a noi: è un capolavoro questo THE NICE GUYS? No, perché per quanto troverete gente che si straccerà le vesti per assicurarvi che non si è mai visto niente di meglio al cinema negli ultimi 20 anni (manco il film l’avessero prodotto loro), il film mostra effettivamente un po’ la corda in alcune occasioni, non è certo quel meccanismo perfetto che se ne sente in giro, cioè non è
Arma Letale 2, e ci sta, ma decisamente si può parlare di film riuscito, divertente, coinvolgente, col grande pregio di non prendersi mai troppo sul serio.
Mi aspetto un sequel a brevissimo.
E qualcuno che mi voglia spiegare questa fissa di Ryan Gosling per Hitler.

IN BREVE: Divertente buddy cop movie anni 80, con atmosfera e musica dei 70, sceneggiatura brillante e non prevedibile, due attori che se la intendono alla grande. Ritorno al Passato.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:8

ATTACCO AL POTERE 2 (LONDON HAS FALLEN) - LA RECENSIONE

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Ok, dopo una lunga, meritatissima e stragoduta parentesi di relax da congedo matrimoniale si torna purtroppo alla vita di tutti i giorni, e si sa dopo le lunghe pause occorre carburare, quindi in attesa del prossimo film al cinema riprendiamo la mano con un filmetto visto durante la traversata dell’Oceano Indiano. Si, uno solo, che gli altri (Argo, Spotlight, Zootropolis, Deadpool e La Grande Scommessa) li avevo già visti e recensiti, e sono stati un più che un buon sottofondo per giocare col 3DS.
Qualche spoiler qua e là, ma fidatevi, non ve ne frega niente.

ATTACCO AL POTERE 2 (LONDON HAS FALLEN) è il classico film che ci prova ma che subito dopo aver spiccato il salto dal cornicione si rende conto di avere come paracadute una borsa della spesa e 35 piani sotto.
E lì ti viene da tifare un minimo per lui, per dargli forza, che ti fa tenerezza nel modo in cui tenta di aprirsi la strada nel mondo dei grandi, e forse l’errore di fondo sta tutto lì, nell’avere come parametri di riferimento i grandi Action 80/90 come Die Hard e Arma Letale: lo scemo del villaggio che aspira alla borsa di studio, ma la borsa di studio gli fa #ciaoneproprio, e da lì va tutto un po’ come d’autunno sugli alberi le foglie.
Parte pure bene, ATTACCO AL POTERE 2, e non è da tutti avendo sul groppone quella carogna fetente di Attacco al Potere (Olympus Has Fallen) come primo capitolo, dove succedeva tutto quello che non doveva succedere, dove la gente stupida si ostinava a fare cose stupide in conseguenza ad avvenimenti ancora più stupidi, dove però la cosa più idiota è stata andarlo a vedere al cinema pur avendo subodorato la cazzata.
Quando te le vai a cercare…
Parte bene dicevamo, col Presidente Aaron Eckhart che se la ride con la sua guardia del corpo Gerald Butler nella più classica delle scene da vita presidenziale: il jogging con la scorta, che a me vedere due che corrono e una macchina che li tallona ai 10 all’ora mi mette sempre un’ansia pazzesca perché mi metto nei panni di quei poveri stronzi del servizio segreto costretti a pupparsi un’ora e passa in macchina a rompersi alla grande, ma tant’è.



Tutto bene per tutti, l’attacco alla Casa Bianca della Corea del Nord nel film precedente è acqua passata, la guardia del corpo del presidente ne è uscito come un eroe e il governo ha ricominciato a bombardare a cazzo mezzo mondo, finendo per far incazzare uno yemenita particolarmente stronzo e vendicativo.
I funerali di stato del Primo Ministro inglese usati come esca per i grandi leader mondiali trasformano così Londra in un teatro di guerra di proporzioni bibliche, dove ovviamente i primi a rimetterci per amor di spettacolarità sono i monumenti storici simbolo della città.
Da quel momento il film apre la sua borsa della spesa sullo strapiombo e prende a precipitare.
Non che non ci provi, ATTACCO AL POTERE 2, a riempire il minutaggio di sequenze d’azione e momenti toccanti, ma il risultato finale è quanto mai deprecabile: appare evidente che i protagonisti che non ne hanno voglia e nonostante in mezzo a loro figuri anche Dio Morgan Freeman, tutto quello che lo spettatore può avere da loro è davvero il minimo sindacale e personaggi talmente macchietta che mi sono reso conto solo dopo di averli già visti tutti nel primo capitolo, ed è un vero peccato, soprattutto per i bravi Eckhart e Freeman, evidentemente qui in modalità “pure io devo pagare le bollette”.
Uno scambio di battute che si salvi dal piattume della sceneggiatura, al netto di battutacce talmente vecchie e banali che avrebbero sfigurato pure nel cinema muto? Non pervenuto
Va detto che qualche stunt e soprattutto l’assalto al palazzo dov’è rinchiuso il presidente per l’esecuzione in mondovisione guidato dal protagonista e dal SAS britannico è ben girato e preso a sé riesce anche a intrigare, ma ormai è tardi, siamo alla fine e tu regista sconosciuto, tu Babak Najafi che di cinema action con sai evidentemente una minchia, non puoi pretendere più nulla da me, spettatore navigato incappato nel tuo film solo perché del catalogo on board di Singapore Airlines avevo già visto tutto, compresa quella chiavica di Batman v Superman (a proposito, avete provato l’ebrezza di rivederlo? Al secondo giro fa più ridere, giuro!)



Perché per prima cosa non mi puoi riempire un film di effetti speciali digitali e pretendere che io me li beva, non puoi permetterti di farmi le auto in digitale, le esplosioni in digitale, gli spari in digitale, e pensare di convincermi, io che sono cresciuto negli anni 80/90 dove si faceva tutto analogico. Lo so, costa meno, ma l’effetto fintone ti ammazza il film, dalla prima inquadratura all’ultima.
E dispiace perché in alcuni punti sembrava quasi di assistere a un lungo episodio di 24, nonostante il Jack Bauer tarocco diviso tra il proteggere il Presidente e ammazzare terroristi in mezzo ad inseguimenti, fughe, sparatorie ed esplosioni, ma è tutto così fittizio, così privo di pathos o tensione, così tirato via per i capelli, a momenti così Squadra Speciale Cobra 11 che proprio la sospensione dell’incredulità comincia a diventare un peso insostenibile.
Si è raddrizzato il tiro rispetto al primo capitolo, questo è vero, ma resta comunque una mezza pisciata fuori dal vaso. Vai che col terzo forse ce la si fa a tirare fuori qualcosa di anche solo decente. Cioè forse. Cioè se mai mi troverò di nuovo su un aereo per 13 ore magari un’occhiata gliela si dà, hai visto mai?


IN BREVE: Film action nato stanco, pieno di effetti digitali fastidiosi e attori che devono pagare le bollette.
Non la merda fumante del primo capitolo, ma tutto sommato siamo sul tiepido.

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 5

NOW YOU SEE ME 2 - LA RECENSIONE

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Cacchio sono già passati 3 anni.
Nell’ormai lontano 2013 il primo
Now YouSee Meè stato uno dei titoli più sorprendenti, perché fresco, ben sceneggiato e altamente spettacolare, capace di emozionare e intrigare costruendo una storia su più livelli caratterizzata da uno schema a incastro notevole.
Innegabile il fatto che il fattore sorpresa/novità possa avere influito positivamente sull’operazione.
Forte di un passaparola importante e considerato a ragione un piccolo gioiellino d’intrattenimento ecco che, pompato da una campagna pubblicitaria piuttosto importante, tre anni dopo esce l’inevitabile e atteso sequel, e… ed è un “ni”, neanche troppo convinto.
Torna il cast al gran completo (unico cambio in corsa, peraltro forzato: fuori Isla Fisher, dentro Lizzy Caplan) e il tutto riparte da dove avevamo lasciato: i Quattro Cavalieri, una volta entrati nella setta mistica nota come L’Occhio, sono fermi da un anno in attesa che venga loro assegnata una missione, ancora incerti sul loro ruolo all’interno dell’organizzazione.
La missione finalmente arriva, e consiste nello smascherare pubblicamente una nuova tecnologia capace di rubare i dati ad ogni utente del mondo, ma le cose iniziano ad andare in vacca da subito: lo show si trasforma in una trappola sia per i Cavalieri che per il loro mentore, una trappola che condurrà il quartetto dall’altra parte del mondo alla mercé di un pazzo intenzionato a servirsi delle loro capacità per attuare un furto multimilionario.
Non fatevi fregare dalla figosità del battage pubblicitario: è una solo una bella illusione.
Di marketing.

La prima cosa che spiazza e stona nella vicenda è il cambio di registro: il tono scanzonato e divertito resta, i protagonisti sono sempre in parte e affiatati, ma emerge abbastanza in fretta una scrittura di base carente sotto praticamente tutti i punti di vista.
In un film di maghi illusionisti, soprattutto a monte di un ottimo risultato com’è stato per il film precedente, uno si aspetta di vedere (scusate, ma checcazzo) maghi illusionisti che danno spettacolo!
Ma no, qui niente di tutto questo, a parte qualche sussulto qua e là e nel finale, in questo secondo capitolo si gioca molto meno sulla spettacolarità (nonostante i 90 milioni spesi, ben 15 in più del precedente) spingendo più su azione fiacca, semplici fughe e soprattutto tirando alla lunga sequenze anche simpatiche ma immotivatamente interminabili (una su tutte quella del furto del chip nel caveau).
Prego notare di Caine e Freeman nella configurazione "Bollette da pagare"

La seconda cosa che infastidisce è l’aggiunta di personaggi perlopiù bidimensionali come i negozianti di magia di Macao, quando non totalmente inutili e piatti come il personaggio di Daniel Radcliffe, creato al solo scopo di richiamare gente col trailer più che ai fini della storia, dove infatti si dimostra una semplice estensione non necessaria del personaggio di (OMISSIS), villain vero e proprio che trama nell'ombra. Simpatico ma inutile anche il secondo personaggio di Woody Harrelson, buono solo a far “sfogare” un po’ quel pazzo totale del suo interprete che si, qualche ghignata la tira pure fuori, ma siamo al minimo sindacale della comicità di bassa lega.
Fin dall’inizio la sensazione generale è quella di avere davanti un sequel fatto tanto perché si doveva fare, ma senza quell’ampio respiro e quella vena comico anarchica che caratterizzava il film di Louis Leterrier, onesto mestierante specializzato in action già autore di
The Transporter, Danny the Dog e del mai abbastanza elogiato L’incredibile Hulk.
Il più grosso fastidio l'ho infatti avvertito sul fronte regia, dove trova inspiegabilmente spazio un cane come Jon M. Chu. Ma chi è Jon M. Chu?
Anch’io me lo chiedevo, mentre mi scorrevano davanti  senza sosta inquadrature da telenovela spagnola su reti infime e prove evidenti che il giorno in cui spiegavano i campi e i controcampi Jon M. Chu fosse perennemente al cesso, senza contare intere sequenze dalla sciatteria vergognosa come quella della fuga in moto, e non capivo come fosse possibile che il regista di un film di questa portata potesse essere tanto incapace, al ché ho voluto approfondire la cosa, capire chi ci fosse dietro la tenda.
L'avessi mai fatto. 

Jon M. Chu è il tizio che ha sganciato sull’umanità questa serie di sciagure, mettendo costantemente a rischio il buongusto, la professione stessa di regista e i nostri testicoli (occhio, solo per stomaci forti):
Io vi avevo avvertiti


Riuscite a cogliere il malsano disegno dietro a tutto questo? Non vi sentite più sporchi ora?
Ecco, è l’esatta sensazione che ho provato io.
La regia di NOW YOU SEE ME 2, non certo aiutata da una sceneggiatura di base interessante ma dallo sviluppo quantomeno incerto, è di un piattume televisivo anni 90 che non si può descrivere, ma solo vivere e averne schifo.
Se alcune sequenze le ho trovate simpatiche e un paio effettivamente interessanti, ho realizzato di doverlo solo alla capacità e alla simpatia di alcuni protagonisti che, con la loro professionalità, hanno saputo tenere in piedi la baracca da soli: Mark Ruffalo con la sua bravura in continua crescita, Morgan Freeman con la sua esperienza, e il trio Eisenberg/Franco/Harrelson per la loro simpatia e intesa perfetta. Dave Franco, per inciso, è la più simpatica faccia da schiaffi da dieci anni a questa parte.
Per il resto, mi spiace, ma è NO.
Un NO che boccia l’entusiasmo che doveva essere, lo stupore che doveva creare, la meraviglia nel trovarsi davanti a uno spettacolo di illusioni sorretto da colpi di scena e stupore continuo, qui non pervenuti. E mi dispiace molto.
Il fatto poi di essere co-prodotto da David Copperfield, mio idolo personale da sempre, è una ciliegina aguarnizione di cui avrei fatto volentieri a meno.
Nonostante sia il secondo film LOL che inanella in pochi mesi , a me Jesse Eisenberg continua a piacere.

IN BREVE:
Decisamente non all’altezza del predecessore, lineare, prolisso, ripetitivo e telefonato.
Regia televisivamente mediocre. Bravi interpreti non bastano a puntellare una baracca sghemba. 
Il coniglio è morto nel cappello.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 5 ½

STRANGER THINGS - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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P
er una volta mi sono preso una pausa dalla poltrona cinematografica per inchiodarmi senza ritegno al divano, pronto ad uno di quei chiusoni eremitici che ti rincoglioniscono nel corpo ma ti arricchiscono l’anima con stile.
Complici delle previsioni del tempo tarocchissime, invece che salamandrare in piscina io e Moglie abbiamo passato questo weekend in totale relax, sparandoci in retina e divorando tutta la prima stagione di STRANGER THINGS, la nuova serie Netflix Original ambientata nel cuore pulsante della nostra gioventù televisiva, i meravigliosi e un po’ barbari anni ’80, e…quando cacchio arriva la seconda stagione?!

Come avrete capito, in Famiglia Zoro si è apprezzato. E Tanto.
La mia paura più grande, nell’approcciarmi alla visione del primo episodio, era il terrore atavico di trovarmi davanti un’altra roba molto finta e molto meh come
Super 8, che scimmiottava con pochissima anima e molti lens flare il cinema di Steven Spielberg, unanimemente riconosciuto come il (decaduto, ahimè) cinematografico padre spirituale di noi selvaggi over 30. E quindi, com'è andata a finire?

STRANGER THINGS è una serie genuinamente mirata e neanche poco ruffiana, per il suo modo tutto sincopato di tirarti dentro per i capelli in un mondo che non c’è più, un passato che tanto abbiamo amato nonostante quei vestiti assurdi e quei tagli di capelli oddio, ma che in noi perdura nel ricordo del nostro vissuto personale e di tutta una serie di pellicole che giravano a nastro sulle nostre tv, film iconici visti e rivisti a ciclo continuo fino alla memorizzazione e oltre (o fino alla fusione della VHS, nel caso) con la perizia e la metodologia propria dei killer seriali.
Un mondo creato evidentemente con affetto e cesellato accuratamente in ogni dettaglio per circoscrivere un periodo magico in cui, come abbiamo già detto, il cinema sfornava meraviglie su meraviglie, rischiando, provandoci, azzardando.
E questo STRANGER THINGS di rischi se ne prende? Si e no, nel senso che oltre a pucciarti di prepotenza nel suo 1983 ricostruito ad hoc, utilizza tutti gli stilemi possibili e immaginabili tipici dei filoni dei film per ragazzi, dell’horror d’annata e del genere soprannaturale per farti rivivere sensazioni d’annata.

Abbiamo quindi altri
Goonies, gruppetto di piccoli “sfigati” che si estraniano dal mondo giocando a Dungeons & Dragons in cantina e i bulletti stronzi a scuola che li tartassano, la madre single che a stento riesce a portare avanti la famiglia, lo sceriffo fancazzista con un doloroso passato alle spalle, c’è il governo che come al solito combina casini che non può controllare in nome della scienza e una creatura indefinita che si aggira per i boschi seminando morte, con tutte le conseguenze del caso. E questo è solo l’inizio.
Gli elementi, dicevamo, ci sono tutti, ma è il modo in cui sono dosati e a volte rimaneggiati per far evolvere la storia (per chi in quel periodo c’è nato e cresciuto, dallo svolgimento anche abbastanza prevedibile, diremo), unito ad una mise en scene che è una lampante dichiarazione d’amore per quel periodo cinematografico ed i generi che tocca, ad elevare il progetto in qualcosa di più di un semplice omaggio, portando tutta la serie ad un livello superiore alla media, una media (se consideriamo la stragrande maggioranza delle serie Netflix Original) già di suo bella alta.

Si respira un’aria d’altri tempi trattando di temi comunque attualissimi e ormai classici, come la difficoltà del dover crescere, di affrontare i propri demoni e le proprie paure, sia quelle fisicamente esterne sia quelle profondamente più interne a noi stessi, si trova il tempo di parlare di amore, di delusione, arrivando a toccare picchi altamente drammatici passando tra una sequenza orrorifica dalla tensione palpabile ad una molto più leggera e distensiva, senza mai abbandonare un citazionismo spinto che non smette mai di dar di gomito allo spettatore.
Fra tutti i riferimenti più o meno espliciti, gli spunti più evidenti sono
IT di Stephen King ed ET di Steven Spielberg che impostano l’ossatura della storia, passando per Carrie e Stati di AllucinazioneScuola di Mostri e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, I Goonies e Stand by Me, Poltergeist,Aliene ancora molti, moltissimi altri.
Lo scenografo dev’essersi tipo sparato per realizzare questo bellissimo viaggio nel tempo, riempiendo ogni angolo di riferimenti e oggettistica vera e propria del periodo, giocando con lo stile 80s in maniera impeccabile, ma la qualità della serie non si ferma certo al mero impatto visivo, e le vere carte vincenti risultano essere altre.
STRANGER THINGS più che una serie ha il pregio di essere un meraviglioso film composto da 8 capitoli, un film di 8 ore che, nonostante la durata, per com’è strutturato e scritto non perde un colpo: mai un momento di stanca, mai un calo di ritmo, niente, è un ingranaggio (semplice, se vogliamo) che non s’intoppa mai, nonostante la sceneggiatura non sia certo priva di qualche incongruenza, ma nulla di trascendentale o che possa minimamente rompere l’equilibrio o la magia che si crea dall’inizio alla fine della visione.

Come anticipato, alcuni plot twist sono prevedibili, altri molto meno, e ti portano a chiederti quanto le sequenze “telefonate” non siano esse stesse citazioni cercate e volute per omaggiare i classici del passato. Io cinque o sei le ho trovate, e le ho trovate deliziose.
Discorso musica: ovviamente la colonna sonora spacca il culo ai passeri, neanche ve lo sto a dire, non mi ci soffermo più di tanto ma credo che con nomi quali The Clash, Toto, David Bowie, Jefferson Airplane e Joy Division potremmo già chiudere l’internet e mandare tutti a casa, ma no, perché il tocco di classe (che ho apprezzato in modo particolare) è stato il trarre ispirazione per le musiche originali dal monumentale lavoro da compositore di John Carpenter, grazie all’utilizzo quasi totale di sintetizzatori e in generale puntando sulla musica elettronica, escamotage che più volte mi ha fatto tornare alla mente i capolavori musicalmente più iconici del regista come
Fog, Il Signore del Male, Halloween… in una parola, uno spettacolo nello spettacolo.
Mi sono tenuto per ultime le lodi più sentite: Winona Ryder è sicuramente il nome di punta, il più conosciuto, ma anche il resto del cast ha saputo dare una prova incredibilmente riuscita, vera carta vincente dello show.

La Ryder, madre distrutta dalla scomparsa del figlio in perenne bilico tra disperazione e follia, regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre; David Harbour, sceriffo fancazzista di cui sopra, è il personaggio che più si trasforma durante la serie, ed è sicuramente uno dei più riusciti al quale è facile affezionarsi; Matthew Modine è uno al quale il bastardo esce molto bene, e qui riconferma la cosa nei panni del villain capoccia del governo.
I ragazzini, tutti bravi e in parte, riescono a far rivivere la magia di gruppi storici come
Goonies, la Monster Squad, i quattro di Stand By Me, e tra loro spicca la giovanissima Millie Bobby Brown, piccola ETelemento cardine della trama: la ragazzina è veramente una spanna sopra tutti, alle prese per altro con un personaggio non facile al quale la giovane promessa ha saputo dare una carica emotiva ed un’intensità incredibile, vedere per credere.
Insomma, forse STRANGER THINGS non racconterà una storia originalissima, ma risulta essere avvincente e ben scritto, ottimamente recitato e musicato divinamente, risultando una celebrazione nostalgica realizzata col cuore per appassionati (e non) perfettamente riuscita.

Contraccolpo finale compreso nel prezzo.

IN BREVE: Splendido omaggio al cinema per ragazzi e horror anni 80, personaggi bellissimi e ben tratteggiati, storia avvincente, colonna sonora da urlo. Emozionante e DIAMOCI UNA MOSSA CON LA SECONDA STAGIONE!
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:8 ½

TARTARUGHE NINJA: FUORI DALL’OMBRA - LA RECENSIONE

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Quando ti capita di avere un biglietto gratis per il cinema ci sono fondamentalmente due scelte che puoi fare: far fruttare questa possibilità con un film importante, qualcosa a cui tieni molto magari, tenendo conto che ormai per un biglietto feriale ti scuciono otto eurorupie senza manco dirti “ci scusi se la stiamo rapinando”, oppure sbracare con la sicumera di una cicala fancazzista e andare a colpo sicuro su una delle più grosse minchiate certificate in circolazione.
Non devo neanche star qui a dirvi che ho brutalmente optato per la busta numero 2, no?


Ovvio che no, se siete arrivati fin qui dopo aver visto la locandina.
Non ci sono SPOILER, in quanto si vede già praticamente tutto fin dal primo trailer, quindi avanti e caviamoci il dente: com’è questo secondo episodio delle nuove Turtles straccione prodotte nuovamente da Michael Bay? E come volete che sia: stracolmo di esplosioni, pieno di voli pindalici da altezze LOL, infarcito di acrobazie inutili piazzate perché “oh, è un film di ninja!”, foderato di battute sceme che non fanno ridere e, novità, cromaticamente dà le piste a un gay pride.
TARTARUGHE NINJA – FUORI DALL’OMBRA è un pugno di colore sui denti dall’inizio alla fine, la Shangri-La di un epilettico grave, una roba talmente fastidiosa da inserirsi con la violenza di un Chiellini qualsiasi tra le caviglie di Maleficent e Alice in Wonderland. Non so se rendo. 

Signori, le Tartarughe Ninja: da oggi con l'80% di spazzatura addosso in meno!

E’ che sai, il primo film è andato bene certo, solo che c’era da macinare più soldi e far accorrere più bambini possibili al cinema, che Nickelodeon ci mette il soldo e c’ha i cartoni da far viaggiare, e allora niente, via di regressione cerebrale-totale-male-etàprescolare, ed è quello che purtroppo succede qui: non che il primo Tartarughe Ninja fosse Kubrick, ma almeno ci provava a non sbragare nella bimbominkiosità spinta.
Qui niente. TARTARUGHE NINJA – FUORI DALL’OMBRA non è neanche un film per ragazzi: è direttamente un film per bambini, e questa cosa te la dice apertamente, te la sbatte in faccia con una violenza inaudita, ma in fondo mica puoi dirgli niente, che la colpa è tua se a 32 anni vai ancora a vedere ste carnevalate.
Purtroppo, come prevedibile, si è fatto qui quello che era stato fatto per il secondo film coi pupazzoni (Il Segreto di Ooze, dal quale tra l’altro vengono scopiazzati diversi snodi narrativi) e praticamente con tutta la serie TV degli anni 90, quella a cui siamo tutti affezionati. Viva i Ninja. Ninja.
Si è preso il lavoro sporco, duro e violento di Eastman e Laird e si sono trasformate le tartarughe in 4 Fratelli Marx superzarri e cafoni
Si, Raf, si sta parlando soprattutto di te

colorandogli intorno tutto il colorabile, abbassando la soglia di violenza alla stregua di una partita a pinella e riempiendo il tutto con sciagurati comprimari.
Ah, dettaglio: posso capire perché sia stato tirato dentro Stephen Amell (Arrow) nel ruolo di Casey Jones del cazzone tirapugni, cioè quello sa fare, e gli dice pure bene perché le poche battute che riescono a forza a strappare un sorriso sono le sue, ma Laura Linney? Una triplice nomination all’Oscar? Qui dentro? Che abbia voluto lei allargarsi la fetta di pubblico, o che l’abbiano strapagata per dare un alone di rispettabilità al film, la sua presenza stona come quella di Adam Sandler nel panorama cinematografico mondiale.
Il giovane fan che è in noi, quel piccolo stronzetto che non vuole saperne di tacere e continua a farci dilapidare soldi in operazioni nostalgia che sappiamo bene finiranno male, e loro lo sanno, i produttori contano molto su questo, e così continuano a fomentare questo incendio infantile con tante piccole chicche, introducendo il furgone giallo delle Turtles, quei due coglioni fatti e finiti di Rocksteady e Bebop, un imbarazzante Baxter Stockman (qui in versione politically correct), il liquido mutogeno, il tanto atteso Krang e il Tecnodromo.



Ma chi c’è dietro tutta questa operazione nostalgia-meglio-se-mi-tenevo-i-ricordi? Ovviamente Michael Bay, che resta saldamente in testa come Produttore supremo (figurati se si schioda, tutta questa carnevalata l’ha messa in piedi lui, e si vede), mentre la regia passa di mano: fuori lo sciagurato Jonathan Liebesman che in vita sua di appena decente ha fatto solo una cosa, e quella cosa era World Invasion e si, tutto questo è già abbastanza triste, dentro il praticamente esordiente Dave Green, che dal canto suo pare trovarsi bene con gli effetti speciali, molto meno con tutto il resto. Dove sta Peter Jackson quando si ha bisogno di lui…
Ma alla fine, direte voi, si salva qualcosa in questa roba da scuola dell’infanzia in sottovuoto spinto?
Si, incredibile ma vero qualcosa si salva, anche se resta sparpagliata qua e là per le due ore di durata e si fa fatica a mettere insieme: viene finalmente rivisto il look da barboni delle Tartarughe, meno gadget inutili e armature improvvisate, sicuramente più in linea con la semplicità dell’iconografia classica;


alcune scene d’azione sono ben orchestrate (quella dell’assalto all’aereo, la battaglia sul Tecnodromo) e rendono la spettacolarità e il dinamismo proprio della serie; il personaggio di Krang, già figo di per sé, in questo film viene realizzato in modo efficace dalla ILM, tanto brutto quanto cattivo come dovrebbe essere, ma…ma siamo sempre al minimo sindacale di una trama da episodio dei Power Rangers messa in piedi male e gestita peggio.
Anche sorvolando sulla (scusate il termine) “interpretazione” di Megan Fox, sul doppiaggio scandaloso di TUTTI i personaggi, sull’inutilità della maggior parte di questi, sulla misera figura da coglione che fa Shredder verso la fine, sulle battute che non fanno ridere quando vorrebbero e su una CGI che in alcuni casi (Splinter,

"Ciao, sono la tua infanzia senza un briciolo di vergogna"

ma anche Bebop e Rocksteady) realizzata spesso al risparmio (per non essere volgari e dire “col culo”), TARTARUGHE NINJA – FUORI DALL’OMBRA risulta essere decisamente inferiore al suo predecessore, nonostante sia infarcito di tutte le chicche che i fan aspettavano e l’esacerbazione di effetti speciali computerizzati, arrivando a buttare la possibilità di riportare le Tartarughe in auge dopo anni di oblio.Se queste sono le premesse per il futuro del franchise, allora rivoglio i pupazzoni, rivoglio le tinte scure, rivoglio qualcosa che, nonostante fosse palesemente finto, non si riveli freddo come il culo di una strega: rivoglio il primo, ancora imbattuto, Tartarughe Ninja Alla Riscossa.




IN BREVE: Ipercolorato, macchiettistico, scemo e per niente divertente secondo capitolo delle nuove tartarughe in CGI targate Bay. Tante chicche per i fan storici, un paio di sequenze carine, niente di più.
Si poteva fare decisamente di meglio.

VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 5

GENE WILDER - UN SEDATAVO ALLA MALINCONIA

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Non volevo scrivere questo post. Che poi non è neanche un post: è un pensiero, forse...
O meglio, non volevo tornare a scrivere sul blog dopo le ferie con una notizia di questo genere, e lungi da me dal fare coccodrilli strappacoglioni alla StudioAperto, squallidi servizi da cacciaviti negli occhi come quelli di Vespa o anche solo il piangina forzato a comando quando muore uno famoso come scrive Zerocalcare.
Perché se così fosse allora quest’anno di post del genere avrei dovuto scriverne almeno dieci, che tra David Bowie, Alan Rickman, George Kennedy, Anna Marchesini, Umberto Eco, George Gaynes, e Bud “Bambino” Spencer (e non solo…) questo 2016 ha già lasciato sotto due metri di terra tanta, TROPPA gente.


Ma quest’anno, unanimemente riconosciuto come “supremo anno dimmerda per la cinematografia della nostra infanzia/adolescenza tutta", non ha ancora smesso di far danni.
E capisco la vecchiaia, capisco i mali troppo forti per la medicina moderna, capisco la disgrazia, capisco tutto quello che volete, ma sta di fatto che ora Gene Wilder non c’è più, ed esattamente come due anni fa vengo volgarmente a scoprirlo da Facebook tra un meme e una preview inutile, ed esattamente come due anni fa c’ho un vuoto dentro che è una cosa assurda, mi rattrista, mi butta a terra senza nessun motivo apparente, perché ok che io con Gene Wilder non c’ho neanche mai parlato, ma lui a me invece ha dato tantissimo, senza neanche saperlo.


Un altro essere incorporeo a cui ho dato vita per anni grazie ad un videoregistratore e un tubo catodico, uno che i tempi comici li aveva nel sangue, uno magari dalla carriera altalenante ma del quale mi bastava quella manciata di pellicole che mi porto dentro tutt’oggi, un altro pezzo d’infanzia che se ne va a farsi fottere per questa stupida, odiosa cosa che alla fine s’invecchia, e non c’è spoiler che tenga perché il finale è sempre quello.
Sono le regole del gioco, dicono. E allora vuol dire che il gioco ha un finale di merda.
Tipo Atmosfear.


E’ molto egoista da parte nostra ricordare un artista per un ruolo e relegandolo a quello, senza pensare al mondo che gli girava intorno, ignorando o non curandoci del fatto che aveva una famiglia, figli, moglie, amici, ma in fondo è normale perché in questi casi non siamo legati all’uomo in sé, che non abbiamo mai conosciuto, ma ai ricordi di mille risate, ai suoi personaggi iconici, a quelli meno riusciti ma non per questo meno importanti, ad un modo intelligente di fare comicità, a tutto quello che ci ha lasciato.
E cosa ci ha lasciato Gene Wilder? Ci ha lasciato il vero e unico Willy Wonka (Depp scansati, fa il piacere, su), Sigerson, il fratello più furbo di Sherlock Holmes, il Leo Bloom di The Producers, Jim il vicesceriffo ubriacone in Mezzogiorno e mezzo di fuoco, la Volpe de Il Piccolo Principe, lo Skip di Nessuno ci può fermare e… ma perché dilungarsi in liste, quando la maggior parte della gente lo ricorderà solo come il Dr. Frankenst(e)in di Frankenstein Junior, o “quello sordo” di Non guardarmi…non ti sento?


Sarò io che mi sento vecchio e stanco di un cinema che non mi fa più ridere quando vorrebbe, sarò io che mi esalto ancora per film degli anni 70/80, sarò io che quando se ne va un interprete, un regista o un autore che per me ha significato qualcosa mi prendo male, sicuramente è un problema mio e del fatto che mi sembra di restare fermo mentre il cinema va avanti e cambia e muta e nonostante tutto non lo riconosco più.
Fatto sta che anche Gene Wilder ha salutato tutti col bacio lanciato dalla carrozza in partenza, evitato prontamente all’ultimo istante con la schivata automatica dall’eterna fidanzata stronza, e in tutto questo tirando le somme il meglio che possiamo sperare è di non essere stati noi la sua eterna fidanzata stronza, perché ci sono volte in cui è molto meglio essere un bastone troppo corto per camminare, o un amico scemo con una gobba instabile su cui poter contare, in fondo.

"INGA!!!"


INDEPENDENCE DAY RIGENERAZIONE - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Come dicevamo riguardo a quel conglomerato di zucchero e cazzate all’acqua di rose di TartarugheNinja 2 – Fuori dall’Ombra, quando hai la possibilità di vederti un film gratis o a prezzi “molto popolari” ti senti in qualche modo legittimato a mettere a frutto questa occasione gustandoti un film interessante, intelligente, che magari resterà negli annali come il capolavoro di questo decennio, oppure…
Beh, film del genere l’altra sera non ce n’erano, quindi si è deciso di svaccare con stile e di spararsi nelle retine INDEPENDENCE DAY : RIGENERAZIONE, e…l’ho già detto che si è deciso di svaccare, no?

Ricordo ancora, vent’anni fa, il me dodicenne che usciva esaltato dalla sala cinematografica, (parentesi amarcord: il MERAVIGLIOSO Cinema Italia di Cremona, una sala bellissima su due piani che quando venne chiusa mi mandò in depressione, e quando la riaprirono come sala bingo fomentò il mio odio verso il bingo e tutti quei vecchi bastardi che ci andavano a giocare, fine parentesi) dopo aver visto quella che unanimemente era riconosciuta dalla critica come la spazzatura suprema della fantascienza anni ’90 per quanto stupida, reazionaria, un film che sembrava forgiare nuovi significati per il termine “americanata”, anche se allora a nessuno sembrava fregare granché della critica, di sicuro non a me che avevo 12 anni, figurarsi a Roland Emmerich che reduce dal buon successo di Stargatestavolta l’aveva piazzata nel 7 come si deve, raggranellando milioni in tutto il mondo.
E mentre i critici si masturbavano con quella porcheria del
Mars Attacks di Tim “tutte le stronzate che faccio devono essere per forza oro #credici” Burton, Emmerich entrava nel club di quelli che contavano grazie a una cagatona divertente.


Perché Independence Day era quello, una cagatona divertente militarizzata e spettacolare indirizzata ad un pubblico di supergiovani, e questo secondo capitolo di certo non esce dal tiro per com’è scemo fino all’osso e fiero di essere l’ultimo esponente di una corrente di reboot mascherati da sequel nati sull’onda della nostalgia che ultimamente fa più danni che altro, ma non divaghiamo.
Vaccata adolescenziale con contorno di vabbeh, lo sappiamo, ma che lo si abbia apprezzato o meno per l’epoca in cui uscì il primo capitolo fece il suo sporco lavoro, ossia esaltare i più giovani, divertire con una comicità semplice-semplice, gasare il giusto col suo essere tamarro e la sua carica guerrafondaia da discount, il tutto corredato da effetti speciali qualitativamente medio-alti e giocandosi tutto sul sense of
wonder bigger, tutto gigante, tutto enorme, tutto “madonnanonneveolafine!” perché come si sa le dimensioni contano. Ma questo “sequel” che gioca a non uscire dal seminato di un film con vent’anni sulle spalle come ne esce? Se la gioca almeno?

Fermatemi se la sapete già: ci sono Data, il Dr.Malcom e lo sceriffo stronzo di Invasion...

Parte bene ID RESURGENCE (d’ora in avanti chiameremo col suo titolo originale perche
Rigenerazione fa schifo ai cessi), lo scenario ucronico di noi poveri mammiferi che ci siamo evoluti tecnologicamente saccheggiando la tecnologia aliena del ’96 per costruire navicelle, jet all’avanguardia e reti interplanetarie di difesa è intrigante e ben realizzato, ancora più utopistico ma valido il concetto di un pianeta unito e totalmente libero da guerre e conflitti perché impegnato a crescere tecnologicamente e umanamente contro il nemico comune, và che Emmerich mi fa diventare ID il nuovo Star Trek, ti dici.
Ma è solo un’illusione, perché tutti questi buoni spunti (anche visivamente spettacolari) sono buttati lì un tanto al grammo e non sviluppati, perché purtroppo ID RESURGENCE si mette vergognosamente in scia col suo predecessore tentando di sfruttarne, oltre all’effetto nostalgia, anche i punti cardine, reiterando facce e situazioni al limite del copia-incolla non considerando una differita di vent’anni, l’esistenza stessa dei tempi comici e l’effetto “già visto”, fallendo miseramente nell’impresa.

La regina aliena in pieno ciclo

Se negli anni gli effetti speciali digitali hanno fatto passi da gigante (e si vede), l’unica cosa rimasta ferma al palo sembra essere proprio Roland Emmerich e il suo modo di fare cinema: voglio dire, chi credi di stupire oggi, nel 2016, con astronavi grandi quanto mezzo pianeta? Chi vuoi far ridere con battute a livello terza elementare, addirittura notevolmente sotto alla comicità già da caserma dell’originale? Chi vuoi emozionare con quella manica di attorucoli pessimi che fai agitare come tarantolati davanti alla macchina da presa?
Ok le vecchie glorie, vedere Goldblum è sempre un piacere, ma santo dio mettigli davanti un copione decente o rischi che quello ti faccia tre quarti di film a spalancare gli occhi e a fare le faccette.

Più angoscia! Più trauma! Più facce da pirla!

E che bisogno c’era di riesumare (letteralmente) lo scienziato hippie di Brent Spiner per fargli fare da spalla comica, o il padre di Goldblum per fargli ri-fare la spalla comica, cazzo un film pieno di spalle comiche che non fa ridere è di una tristezza indecente!
Non parliamo dei giovani rincalzi, per carità, che se Hollywood è in mano a questi finisce davvero che mi butto definitivamente sul cinema giapponese e buonanotte a tutti.
Non posso neanche prendermela con la storia, non posso, perché non c’è una storia, solo una serie di pretesti fastidiosi e personaggi stupidi che si prendono spaventosamente sul serio e fanno più ridere di quelli che dovrebbero farti ridere per contratto.


La consapevolezza che fosse una tafanata da “biglietto ridotto e ci sto rimettendo” c’era fin dall’inizio e non mi ha fermato, forse a causa dell’effetto nostalgico, ma mi aspettavo un film leggero, scemotto, pure ignorante magari ma perlomeno simpatico, qui però siamo ben oltre lo sfruttamento consapevole del marchio (
Jurassic World) o allo svolgimento della trama che volutamente riecheggia di deja vu (Star Wars VII): questo è vilipendio ai nostri ricordi.
Dovevi aspettartelo, mi hanno detto, ed io me lo aspettavo di livello almeno pari all’
ID originale, ho voluto buttarmi anche per testare la situazione di un futuro in arrivo a cui tengo molto di più: si, perché quest’uomo ha in mano il franchise di Stargate, un universo che vuole reboottare da zero con una trilogia e, signori, se queste sono le premesse pregate che quest’uomo vengano gli alieni a rapirlo sul serio, e in fretta.

So'ffigo, so'bbello, so'ddé Thor er fratello

Sapevo di essere fuori target, l’unico errore è stato non chiedermi quanto: INDEPENDENCE DAY RESURGENCE è (salvo un paio di spunti validi e qualche guizzo) un film sgangherato, una copia carbone fatta male di un titolo di culto che gioca con le stesse regole e premesse ma abbassando il tiro in maniera imbarazzante, un’insulsa operazione recupero senz’anima che sparirà dalla nostra memoria nel giro di un niente.
Circolare, non c’è davvero nulla da vedere.
IN BREVE: Upgrade prolisso e senza mordente del film di vent’anni fa, non diverte, non intriga, non.
Effetti speciali bellissimi, ma al giorno d’oggi è prassi. Storia inesistente, attori scoglionati, giovani promesse di stocazzo. Meglio vivere di ricordi.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 4 ½



Vediamo se avete le palle di ricostruirmi ANCORA

ALLA RICERCA DI DORY - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Se c’è una cosa da dire sulla Pixar è che, perlomeno, quando non ne ha voglia te lo fa capire fin da subito.
Come accaduto con
Il Viaggio di Arlol’anno scorso (titolo passato talmente sotto silenzio che non se l’è cagato praticamente nessuno), quando la Pixar in un titolo non crede molto si limita a farlo uscire senza troppa risonanza mediatica, senza supportarlo con un battage pubblicitario adeguato come invece aveva fatto con l’ubiquo Inside Out, per dire.
Ma se c’è proprio una-cosa-una-sola da dire sulla Pixar è che, per quanto in un suo film non sembri  crederci, non ce la neanche impegnandosi a far uscire un brutto film. Proprio non ce la fa.

E così dopo 13 anni (minchia, già…) arriva in sala ALLA RICERCA DI DORY, sequel/spin-off di quel meraviglioso road movie che era Alla ricerca di Nemo, uno dei più grandi successi dell’accoppiata Disney/Pixar già entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo di tutto il globo.
Avete presente quando bambini e (già più grave) adulti vedono un acquario con pesci pagliaccio e pesci chirurgo e se ne escono con “quello è un nemo e quello un dory”? Ecco.
Ma veniamo al punto: com’è questo nuovo viaggio nel mare in CGI più spettacolare del mondo dell’animazione contemporanea? Risposta quanto mai complessa, invero.




Come per quei seguiti che nella stragrande maggioranza dei casi ricalcano in maniera pedissequa il fortunato originale con cui devono fare i conti, ALLA RICERCA DI DORY riprende la struttura e lo sviluppo del suo illustre predecessore invertendo giusto un paio di protagonisti e inserendo nuovi personaggi per arricchire il pantheon (e il pupazzame nei Disney Store, ovvio) giocando apparentemente facile: è un seguito semplice e sincero, immediato e molto lineare nel seguire un solco già tracciato senza buttare sul piatto nulla di innovativo né alzando il tiro con una chiave di lettura a più livelli (così a freddo mi viene in mente lo struggente
Toy Story 3, ma anche la psicologia for dummies di Inside Out, o l’agrodolce senso della vita diUP ).
Nel primo film avevamo come protagonista un padre iperprotettivo che, per eccesso di ansia dovuta ad un avvenimento traumatico del suo passato, finiva per perderlo davvero il figlio (e non venitemi a dire che il primo film era incentrato sulla disabilità, perché Nemo la sua pinna atrofica l’ha sempre usata più che bene senza mai struggersi o farne un peso); qui si gioca spesso (troppo) e volentieri con il problema di Dory, stando molto attenti a restare sempre sul filo del rasoio, quasi come se in fase di sceneggiatura gli autori non fossero sicuri sul tono con cui affrontare la questione: vogliamo far ridere la gente con questa cosa che la nostra protagonista non si ricorda una mazza ogni due per tre? Oppure vogliamo rendere la sua situazione davvero drammatica, facendo del suo handicap il suo problema principale, l’ostacolo che Dory dovrà superare per risolvere la sua situazione e, in qualche modo, la vicenda?




Questo è forse il più grosso limite dell’ultima fatica Disney/Pixar, il non aver rischiato lasciando la via vecchia per la nuova, certi della riuscita del progetto grazie anche a un universo immaginifico ormai ben delineato e riconoscibile, e a quanto pare gli incassi gli stanno dando pienamente ragione: la macchina ormai è ben oliata e si guida quasi da sola, un tranquillizzante K.I.T.T. subacqueo che, ti rendi conto appena sali a bordo, ti porterà sano e salvo alla meta.
Tralasciando il discorso da
se mia nonna aveva le ruote sul fatto che i seguiti non sono mai all’altezza degli originali (che è una cazzata di suo perché, nonostante le eccezioni si contino sulle dita di due mani, queste esistono e sono pure belle grosse), alla fin fine ALLA RICERCA DI DORY gioca facile le sue carte e porta a casa il risultato, perché al netto di quanto detto sopra, di una partenza lenta e di un paio di tempi morti nella parte centrale, il film diverte e intrattiene, ti fa affezionare alla protagonista e al suo problema come faceva nel primo, ti fa apprezzare ancora di più la figura del piccolo e cazzutissimo Nemo (nomen omen), ti fa spanciare con un alcuni personaggi nuovi fuori di testa come quei tre marmittoni dei leoni marini, quell’oca anatra di Becky e soprattutto col vero valore aggiunto del film, il burbero polipo Hank, reso magnificamente sia a livello concettuale che realizzativo, e ovviamente gioca l’asso con il concetto di famiglia, anche se Adinolfi potrebbe obiettare in proposito ma questo è un discorso a parte. 



Graficamente bellissimo anche se si è visto di meglio (e guardate che non è un caso), sul fronte doppiaggio si è fatto un gran bel lavoro, non che dalla Disney mi sarei aspettato di meno, ma coi tempi che corrono non si può mai davvero sapere.
Quindi, tirando le somme, un seguito non fatto tanto per fare ma comunque non all’altezza dell’originale, per quanto non si possa proprio parlare di film non riuscito: le risate ci sono, l’anima c’è, la tavolozza dei sentimenti non manca di certo e, a conti fatti, si esce dal cinema senza il retrogusto amarognolo degli 8 euro e cinquanta buttati nel cesso della speranza.
Tra la via vecchia e quella nuova, ALLA RICERCA DI DORY va sul sicuro e, consapevole di giocare su un terreno già battuto, non fallisce.
Rimane solo il dubbio su come sarebbe stato prendere l’altra via ed esplorare questo oceano di meraviglia sotto un’altra prospettiva, senza l’obbligo di seguire un percorso sicuro che bene o male sappiamo già tutti dove porta.
IN BREVE: Un seguito leggero e divertente, più adatto a un pubblico giovane che al solito range ampio alla quale siamo abituati. Introduce un paio di personaggi validi seguendo in modo quasi pedissequo le orme del primo capitolo senza prendersi rischi. Funziona, ma i picchi di qualità Pixar sono ben altri.
A ‘sto punto speriamo solo che fra qualche anno non si perda pure il padre.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 7
 

BLAIR WITCH - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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Diciassette anni fa sbancava i cinema uno dei più riusciti progetti di marketing contemporanei, un film evento esploso col fondamentale aiuto di internet e grazie al quale il mockumentary e il found footage raggiunsero di prepotenza il grande pubblico dando il via a una nuova ondata di pellicole amiche intime della xamamina.
Quel progetto era il fortunatissimo
The Blair Witch Project, un nome che (almeno per quelli della mia generazione) non ha bisogno di presentazioni.
In questi giorni nei cinema è uscito invece BLAIR WITCH, nominalmente spacciato come il seguito del campione d’incassi del 1999 e, spinto dal ricordo e dall’idea di un
vero seguito, sono andato a vederlo. E?
E, come diciassette anni fa, sono andato al cinema a rivedermi 
The Blair Witch Project.
Spaesamento, acido e sospetto d’inculata compresi nel prezzo.
Poi dicono che sono stronzo io, che certe cose me le vado a cercare.
Un coglione una volta ha anche alzato il tiro dicendomi che godo (si, godo!) nel parlare male di qualcosa, che non mi piace niente, che “quelli come me” non dicono mai nulla di costruttivo ed è meglio perderli che trovarli. Infatti è stato meglio, almeno per me di sicuro.
Io come spettatore, visto che nessuno che mi paga il biglietto del cinema, posso assicurarvi se vado a spendere 8 euro e cinquanta per un film non lo faccio per andare a masturbarmi col 4K e col dolby sarcazzo della sala di turno, se ci vado è perché potenzialmente il film può interessarmi, o perché il trailer mi ha dato vibrazioni positive suscitando la mia curiosità, o perché legato alla serie di film precedenti alla quale appartiene, ci possono essere mille ragioni.
E visto che nessuno mi paga per dirne bene o male, e che a maggior ragione non traggo alcun profitto nel farlo, mi pare legittimo poter parlar bene di un titolo che ha saputo entusiasmarmi (com’è successo con Captain America: Civil War o Il PiccoloPrincipe, o La Grande Scommessa) o male di uno che riesce a farmi vomitare da orefizi sconosciuti (ancora mi brucia quella roboante inculata di World War Z), poi ovviamente nel mezzo scorre il fiume dei buoni, dei bah, dei passabile e dei poteva fare meglio: qui sulla Blogteca si garantisce imparzialità, visto che il primo a spenderci soldi suoi è il pirla che scrive, ok? Bona.

Conclusa questa breve ma fondamentale premessa veniamo al film, a questo ennesimo esercizio di manierismo fatto di riprese traballanti e di gente che urla ininterrottamente nei boschi.



BLAIR WITCH utilizza alcuni basilari escamotage per attirarti al cinema: esattamente come gli odiatissimi remakeper prima cosa utilizza il marchio, il titolo storpiato del capostipite, attaccandosi come una mignatta ai ricordi dello spettatore (in questo caso ai miei) per giocarsela facile facile; non contento, sapendo che ormai la maggior parte della gente i remake li schifa a priori, prova a buttarti lì la questione del sequelper insinuare dentro di te il dubbio che sia una storia (quella storia) che procede, che riprende da dove si era lasciato per poi andare oltre, e nell’istante in cui ti trovi anche solo ad accarezzare l’idea in sé, BLAIR WITCH ha già vinto, e ti ha fregato alla grande.

O almeno, ha fregato grosso modo metà del suo pubblico. Ma perché?
Perché se siete più o meno della mia generazione (orgogliosamente 1984 inside)
The Blair Witch Project l’avete visto prima dei vent’anni e per forza di cose la novità, lo stile documentaristico, l’averne vissuta tutta la fase web con quella falsa ma intrigante leggenda metropolitana della “storia vera” costruita ad arte, a 15 anni non potevi non rimanerne folgorato.



Il problema di questo nuovo film è che non si tratta di una messa in scena inadeguata o irrispettosa nei confronti dell’originale, anzi per assurdo il problema qui è proprio l’opposto, ossia che questo BLAIR WITCH non è altro che una copia carbone di
The Blair Witch Project. E’ un remake, fatto e finito.
Il tranello di cui si accennava prima sta nel buttare lì una parentela tirata fuori di fretta e furia tra il nuovo protagonista e la ragazza nel primo film, un roba pretestuosa di suo che vabbè (facendo inoltre un gran casino con date e riferimenti al predecessore in maniera imbarazzante) e lì ci si ferma, perseverando invece nel riciclare senza vergogna dialoghi, situazioni, tempistiche, location e addirittura l’evolversi degli eventi, inquadratura finale compresa.
E’ visivamente evidente che dietro c’è stato uno sforzo produttivo maggiore, su questo niente da dire, e va da sé che la tecnologia in questi anni ha fatto passi da gigante, infatti dove là c’erano videocamere a cassette (con la relativa qualità video) qui abbiamo un drone e microcam auricolari dotate di GPS (spunto buttato lì dieci volte e sfruttato zero), ma il concetto non cambia.
Un budget più ciccione ha permesso di realizzare sequenze come quella del tunnel sotterraneo o di mostrare e costruire qualche sequenza in più all'interno di quella dannata catapecchia in mezzo al bosco, ma si tratta essenzialmente di ampliamenti di scene già viste e che, da spettatori, sappiamo già benissimo dove andranno a parare.




Aumentano i “personaggi”, ora invece che 3 generic-tizi ci sono 6 macchiette, si raddoppia il body count con altre morti (una davvero ben riuscita…
CRACK!!!), e introduce una situazione legata a un personaggio talmente ovvia che stai lì col cronometro per metà film aspettando di averne la conferma (che ovviamente arriva), ma l’ora e mezza scarsa che Adam Wingard tenta di riempire appare drasticamente vuota, e molto presto la noia/il già visto/il sonno prendono il sopravvento.
Già, il sonno: a quella stramaledetta casa sghemba nel finale ci sono arrivato a fatica, tanto che lo “scontro” finale l’ho vissuto tra una sbuffata e uno sbadiglio. Sul serio.
Sicuramente è un problema mio.
Sarà che oltre ad essere un film vecchio nell’animo e nella realizzazione BLAIR WITCH è anche una copia senza vergogna di qualcosa che avevo già visto ed apprezzato, ma che allora era un film contestualizzato e supportato in modo intelligente da un lavoro di marketing geniale, questo invece oltre ad essere sbucato dal nulla solo un paio di mesi fa (nascosto sotto il titolo di lavorazione
The Woods) è completamente privo dell’unico motivo d’interesse che aveva portato milioni di persone al cinema diciassette anni fa: l'aura da "film verità" che si porta dietro dalla sua nascita.



Manca il corollario, manca di una struttura sua, un motivo valido per esistere, di personaggi degni di questo nome, di uno sviluppo che non sia prevedibile ogni dieci secondi… in compenso è perfetto se volete farvi una cultura sui boschi, sui talismani indiani delle bancarelle affissi nottetempo, sulle tende sparate in aria come geyzer, sulla lobby dei boscaioli che senza motivo abbatte alberi a caso ogni cinque minuti, su tizi con le gambe maciullate che scalano gli alberi, sulla gente stupida che in situazioni di panico e angoscia non fa altro che continuare a saltare fuori dal buio a urlare “BUH!!” in faccia agli altri (e quindi allo spettatore).
Un personaggio a un certo punto se ne esce con un “La volete smettere di fare così?!”.
Ciccia, credimi, era quello che stavo pensando dall’inizio del film.
Il lavoro di montaggio, per quanto ben fatto, non salva la baracca, né lo fa il non voler mostrare niente fino alla fine salvo poi staccare tutto facendo ricicciare fuori la strega tante di quelle volte che ti vien quasi il dubbio che voglia solo farsi un selfie con i protagonisti. 

Cosa che, più o meno, a un certo punto riesce anche a fare. Giuro.
Mi rendo conto che un quindicenne, oggi, non avendo magari mai visto il primo, iconico film potrebbe trovare del buono in BLAIR WITCH, ma nulla mi toglie dalla testa che questo buono, privato della sua aura documentaristica da Chi l'ha Visto: Horror Version, il nostro quindicenne possa averlo già visto di sicuro altrove, senza dubbio fatto meglio. Figurati noi superstiti dell'84...




IN BREVE: Chiaro omaggio del regista ad un film che ha fatto epoca, purtroppo ne esce un remake vigliacco mascherato da sequel che non si prende la minima responsabilità.
L'incarto è nuovo, è l'anima ad essere vecchia. Noia e prevedibilità oltre il livello di guardia.
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO: 4 ½



PETS - LA RECENSIONE SENZA SPOILER

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La scorsa settimana sono andato a vedere l’ultima fatica Illumination (quelli di Minions) ma tra una cosa e l’altra non avevo ancora trovato il tempo di scriverne nulla, e dato che il prima possibile mi guarderò Inferno(lo ammetto, non vedo l’ora) ho pensato che non fosse il caso di lasciare indietro troppi arretrati.
Perciò, pronti via, partiamo senza indugi con la recensione di…ehi ma cos’è questo deja vù?

Allora, fermatevi se già la conoscete: il nostro quattrozampe protagonista è il compagno di giochi della sua amata padrona, lei è tutta la sua vita, un rapporto idilliaco che guarda, solo che un giorno senza preavviso questa si porta a casa un nuovo cane e in lui scatta un’invidia che non ti dico, cerca di liberarsi del rivale e, per la legge karmica del “non mi rompere i coglioni o finiamo tutti nei casini” tipica dell’animazione americana, i due finiscono per perdersi in città e saranno costretti a collaborare per ritrovare la strada di casa, trovando pure il tempo per diventare amici per la pelle.


Si, avete capito, sostituite i giocattoli con i cani avete appena trasformato Toy Story in PETS.
Il fatto è che quando il film comincia sei come intontito: un po’ per la simpatia dei personaggi, un po’ perché stai con l’orecchio teso a cercare di distinguere i famosi e i famigerati che l’edizione italiana ha scaraventato in sala di doppiaggio, un po’ distratto dal buon livello delle animazioni (Pixar e Disney continuano sempre a giocare un campionato tutto loro, diremo riscoprendo l’acqua calda), e finisce che questi ti fanno passare per roba fresca il macinato del
giorno ventennio prima.
Ora, in attesa che i legali Disney/Pixar si scatenino, parliamoci chiaro: PETS è un film brutto? No che non lo è.
Come dicevamo prima il film Illumination gioca in un campionato a parte rispetto ai “moralistoni” Disney, (ma anche ai Dreamworks e ai Gibli se è per questo) perché, nonostante scopiazzi al limite del
maseiserio? da Toy Story, il film è decisamente più un parente stretto di Minions, già campione d’incassi lo scorso anno per un semplice, basilare concetto su cui si poggia totalmente e che pare sia la cifra stilistica alla base della loro intera produzione: fa ridere.



E’ vero ci sono diversi tempi morti verso la metà, e sì il finale va un po’ verso lo sbrago totale, e sì la moralina di fondo che si respira è più un rimando disneyano che altro, ma il film diverte con la sua semplicità e la sua azione slapstick, alcune trovate sono divertentissime, altre solo simpatiche, ma chi ha un cane o un gatto in casa non potrà non cedere davanti a tutto il campionario di riferimenti che solo chi ha un animale da compagnia può apprezzare.
Io per esempio che ho un gatto e un cane riconosco in Max e Chloe (per citarne solo un paio) tutta una serie di comportamenti che decine e decine di volte ho riscontrato nei miei fedeli compagni di vita a quattro zampe, e non ci scappi, se ami gli animali un sorriso te lo strappa a prescindere, perché ricolleghi, ricordi, ci rivedi le tue interpretazioni di certe movenze, determinate espressioni e atteggiamenti, o le conferme di quello che hai sempre pensato che facciano una volta lasciati soli.



E’ un toccare facile le corde del cuore di un appassionato, ed è la stessa cosa che faceva
Ralph Spaccatutto col secret code sul pad Nintendo o Big Hero 6con tutti i suoi rimandi al mondo dei fumetti, è (diciamo) un modo per puntare sul sicuro e garantirsi un rientro facile, che infatti è arrivato.
L’animazione è ormai ottima di routine per prodotti di questo calibro, forse meno curata di Minions ma sicuramente di buona fattura e ottimo impatto puccettoso, che ci sta tutto essendo un film rivolto principalmente a un pubblico di giovanissimi.
Il doppiaggio italiano è buono ma non eccelso, con i comprimari molto più in palla rispetto ai protagonisti a mio avviso, Laura Chiatti sicuramente sopra un Cattelan un po’ monocorde, un Lillo poco convinto e un Mandelli che come sempre sbraca qualsiasi cosa faccia, diverse prove sottotono salvate grazie a character di contorno spassosi e fuori di melone.


PETS alla fine pecca sicuramente di originalità, è un film da guardare a cuor leggero e che non si preoccupa di inserire una doppia chiave di lettura alla
Inside Out, non è minimamente a dichiarata altezza adulto come Il Piccolo Principe e neanche un sognante capolavoro per l’umanità by Miyazaki, e il pubblico dovrebbe smetterla di pretendere che lo siano tutti perché altrimenti arriveremmo ad un mercato saturo di film tutti pateticamente uguali e del quale, di lì a poco, non fregherebbe più niente a nessuno.
PETS è un road movie animato, una commedia rivolta principalmente ai bambini e agli amanti degli animali messa in piedi per divertire senza spingersi oltre, e per quello che fa e per come lo fa non è certo da sottovalutare.
Diversamente, chi in un film non si accontenta del buon intrattenimento fine a se stesso ma cerca input originali, approfondimenti psicosociali o chiavi di lettura oniriche dovrebbe decisamente cercare da un’altra parte.

IN BREVE: Copia carbone di Toy Story con animali al posto dei giocattoli ma senza i sottotesti del caso, divertente a tratti e dalla buona realizzazione tecnica, personaggi secondari fuori di testa.
Se avete animali domestici di sicuro lo apprezzerete di più.  
VOTO, SE PROPRIO DOBBIAMO FARE NUMERO:

NINTENDO SWITCH - IL NUOVO GAMING A TUTTO CAMPO

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E venne il giorno.
Solo che no, non si tratta dell’ennesimo, soporifero pippone frantumamaroni shyamalaniano, oggi parliamo di Nintendo e del reveal più atteso dell’anno: quello della sua ultima console, quella che fino ad oggi conoscevamo solo col suo nome di produzione NX, diamo quindi un ufficiale benvenuto alla nuovissima NINTENDO SWITCH!

Se ne sono dette di ogni su questa console in questi mesi, e bisogna ammettere che Nintendo è stata bravissima a bloccare leak e centellinare le informazioni in uscita, quel tanto che bastava per far venire l’acquolina in bocca ai fan e far impazzire tutti gli altri.
Certo era che, con una data d’uscita fissata a marzo, il fatto che nulla fosse ancora stato mostrato puzzava lontano un miglio di ecatombe consapevole, lo spauracchio di una WiiU2 restava ancorato sulle nostre spalle (e su quelle di Nintendo) come una carogna e il sospetto che il motivo di tutto questo rimandare fosse la consapevolezza di non poter competere con Microsoft e Sony, costringendo l’intera Nintendo ad un enorme harakiri aziendale, si stava impadronendo anche di me, che nonostante tutto ho sperato fino all’ultimo di poter essere smentito.
Cosa che, almeno da quanto ho potuto vedere, è successo.
Regìa, agevoliamo il filmato?


Ammetto che la mia curiosità è stata spinta oltre ogni livello di guardia sin dall’annuncio, curioso su ciò che la casa di Kyoto avesse in serbo per noi, curioso su quale novità spaccagenerazione avesse potuto tirare fuori per cambiare le cose, il proverbiale asso che ormai mancava da troppo tempo in quelle maniche.
In un momento in cui tutto il mondo sta impazzendo per una VR fin troppo in fasce, Nintendo tira fuori finalmente la tanto sognata console ibrida, un progetto che sembra avere potenzialità incredibili che si spera vengano sfruttate appieno.
L’ottima (davvero ottima) notizia è che finalmente Nintendo ha ritrovato l’appoggio delle terze parti,



cosa che la WiiU aveva malamente perso poco dopo il debutto portando di fatto la console al prematuro tramonto, tenuta in coma farmacologico dalle uscite first party (tipo due all'anno...).
E’ ancora troppo presto per parlare di dettagli, per ora si sa che la console monterà una tecnologia apposita sviluppata da Nvidia su processore Tegra, che i due Joy-Con saranno estraibili e utilizzabili sia da un singolo giocatore sia da due per giochi come Mario Kart, che ci sarà l'immancabile controller Pro, ma per ora poco altro.

I prossimi mesi saranno sicuramente rivelatori su specifiche tecniche, line-up ufficiali al lancio, funzionalità, prezzi e tutto il resto, nel frattempo possiamo però dire che questo reveal fa ben sperare: Pokémon giocato comodamente in salotto? Titoli come Skyrim 3 finalmente portatili? Sembra davvero tutto troppo bello per essere vero.
Marzo è lontano, è vero, quanto è vero che al Day One (per le troppe, troppe brucianti inculate prese negli anni) difficilmente acquisterò ancora una nuova console, ma il concetto stesso di questa NINTENDO SWITCH è già di per sé qualcosa di magnifico ai miei occhi.
Vero, dovremo mettere in conto un prepensionamento del 3DS, e altrettanto vero aspettiamoci nei prossimi anni di vedere almeno da parte di Sony la solita scopiazzatura forzata di Nintendo, magari con un bell’accrocchio a parte da infilare su per il polveroso culo di PSVita, ma la lezione l’abbiamo imparata da tempo: Nintendo crea gli standard, gli altri si adeguano, che uno voglia ammetterlo oppure no.



Personalmente trovo molto, ma MOLTO più attraente una console come questa rispetto ad un visore per una realtà virtuale che impiegherà ancora anni per essere supportato come dio comanda, a guardare proprio il bicchiere mezzo pieno.

Sarà davvero la rinascita Nintendo, sarà davvero possibile in un mondo videoludico pieno di finti giocatori che si masturbano pensando solo alla potenza grafica?
Sarà tutto da vedere, io intanto mi godo le mie vibrazioni positive, prego che tutto questo ben di dio si confermi un ben di dio e che non costi un occhio, anche perché la voglia di metterci le mani sopra è forte, molto più di quanto mi aspettassi, e più di quanto sperassi.
Quello che mi conforta è soprattutto il cambio di rotta, finalmente Nintendo smette di inseguire i due colossi concorrenti per ricominciare a fare quello che ha sempre saputo fare meglio: innovare.
Se la strada intrapresa sarà o meno, ancora una volta, quella vincente...solo il tempo ce lo dirà.
Quello, il marketing, e ovviamente le vendite.



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